Lazzaro Felice tra filosofia e favola

Certamente, si afferma con verità sia che l’uomo è per l’uomo un Dio, sia che l’uomo è per l’uomo un lupo”.
T. HOBBES, De Cive. Elementi filosofici sul cittadino

Sembra partire dall’ “Homo homini lupus attribuito al filosofo britannico Thomas Hobbes e prima di lui ad Erasmo Da Rotterdam e al commediografo romano Plauto, il film “Lazzaro Felice” di Alice Rohrwacher, nelle sale italiane dal 31 maggio.

lazzaro felice

Tutto lascia pensare che la pellicola ruoti attorno alla dicotomia vita rurale/ vita civile, attraverso il personaggio di Lazzaro (l’esordiente e magnifico Adriano Toniolo) che vive nella comunità mezzadrile dell’Inviolata con altri contadini tra cui Antonia (Alba Rohrwacher, diretta per la seconda volta dalla sorella minore), sotto il giogo della cattivissima Marchesa Alfonsina (Nicoletta Braschi) e del suo tuttofare (Natalino Balasso), non nel medioevo, bensì in pieni anni novanta. La comunità conduce, almeno in apparenza, una vita serena (come dice la marchesa al figlio Tancredi, interpretato da Luca Chikovani: “Gli esseri umani son come bestie, animali. Liberarli vuol dire renderli consci della propria condizione di schiavitù) e vive in quello che sarà poi definito tempo dopo, e non da lei: il “Grande inganno”, inconsapevole di ciò che accade fuori e forse, per questo motivo, avvolta da una serena accondiscendenza. Soprattutto Lazzaro sembra godere di ogni singolo attimo di quella vita, di ogni luna che in campagna domina la notte come un occhio vigile, di ogni giorno trascorso a coltivare la terra, a servire la Marchesa e Tancredi, che fa di lui il perfetto capro espiatorio delle sue noie campestri.

lazzaro felice

Ma Lazzaro, con quegli occhi grandi, accoglie tutto, sopportando, anzi rimarginando prima ancora che sanguini ogni ferita inferta alla sua ingenuità, come se quell’anima pura fosse una fortezza inespugnabile su uno sfondo agricolo sospeso nel tempo. E fin qui, il film sembra porsi agli antipodi rispetto alla massima hobbesiana, secondo cui la natura “lupesca” e pericolosa dell’uomo viene fuori quando cessa di essere cittadino per tornare a una condizione naturale, privato della ragione e della morale contenute in quella che Hobbes definisce civiltà. Il film, all’inizio, crea nell’immaginario di chi guarda quella frattura tra vita di campagna e vita cittadina, così presente nei film di Ermanno Olmi, ne L’Albero degli Zoccoli su tutti, collocandola in un contesto di inaspettata modernità (ad Olmi Alice Rohrwacher, vincitrice del premio per la migliore sceneggiatura a Cannes, dedica la vittoria. “Mi manca il suo sguardo”, dirà sul palco a meno di un mese di distanza dalla morte dell’ottuagenario regista); sembra che tutto proceda lentamente seguendo il copione della ruralità, scandito da giorni eterni e da notti troppo brevi per quei corpi così stanchi, fino a quando la vita fuori, con la sua ostentata dichiarazione di libertà, non irrompe nell’Inviolata, spalancando le finestre e gli occhi di chi non aveva potuto vedere.

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Da quel momento, seguendo il copione, tutto dovrebbe cambiare, la possibilità di scegliere dovrebbe restituire ai contadini, anzi insegnar loro, quell’idea di libertà che non avevano mai osato immaginare o che forse più semplicemente non avevano mai conosciuto. Maliberarli vuol dire renderli consci della propria condizione di schiavitù”, diceva la marchesa Alfonsina e in questa parabola i lupi non sono gli altri,  non arrivano da chissà dove ma si nascondono tra le pieghe di una indole addomesticata e vinta dalla stanchezza. Così torniamo ad Hobbes, che nel cittadino anestetizza le “passioni” della natura per seguire la morale meccanicistica delle leggi, in grado di renderlo non più un lupo per gli altri, bensì simile a un Dio. E chi non può essere domato che fine fa? Chi preserva la sua condizione naturale senza arrecare danno alcuno agli altri ma salvaguardando, al contrario, una purezza toccante e “patetica” (nel suo significato più autentico), come viene accolto nella civiltà? È questa forse la domanda cui sul finale la regista dà una risposta netta e inevitabile, che ha il sapore di una favola nera (e a una condizione fiabesca rimanda anche la locandina del film e di tutti i suoi precedenti), così come ne “Le meraviglie” quella caverna con le ombre proiettate sulle pareti rimandava al mito platonico e a una prigione in cui l’uomo si trova da sempre e dalla quale non intende essere liberato. Che sia la libertà stessa?

Correte in sala, questo è un gran bel periodo per il cinema italiano (almeno per lui).

 

/// il trailer ///

 

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