Perfect Days e il potere di adesso.

Alla quarta visione al cinema di Perfect Days (Wim Wenders, 2023) in meno di un mese e mezzo, mi sono chiesta cosa mi spinga a RI-vedere questo film, che esce oggi su MUBI (e questo mi permetterà di continuare a vederlo bisettimanalmente come pratica di crescita personale). Provo a spiegarlo qui.

La risposta l’avevo costruita pian piano dentro di me, e combaciava perfettamente con una conversazione tra due amiche all’uscita dalla sala.

“Luisa cara, che film meraviglioso, è come essere state massaggiate per due ore”. Le risponde l’altra, “Ohhh davvero avrei voluto non finisse mai”. Avevano immediatamente colto il senso dell’esperienza.

Che potrebbe continuare per ore, l’ho pensato anche io, e anche Wim Wenders, che in più interviste ha ammesso di essersi perso nei ripetuti gesti del protagonista Hirayama, taciturno uomo sulla sessantina che per lavoro pulisce i bagni pubblici di Tokyo, ma su un piano più elevato è maestro di presenza.

Naturalmente stiamo parlando di bagni talmente speciali da farci un film (altrettanto speciale), perché parte di “The Tokyo Toilet Project”, un progetto di riqualificazione urbana dell’area di Shibuya, che ha visto 16 grandi architetti tra cui Tadao Andō, Kengo Kuma o Shigeru Ban (gente che di solito fa banche e musei) realizzare delle pubbliche toilette. Opere progettate nel rispetto del bene comune. Chi meglio di Wim Wenders, regista da sempre vicino all’architettura e capace di animare (dare anima) anche a oggetti e spazi, figuriamoci agli esseri viventi, poteva realizzare un ritratto così gentile del rispetto? (Verso gli altri, verso la natura, verso la vita).

I servizi igienici sono da sempre un simbolo della cultura dell’ospitalità che trova la sua forma più alta in Giappone. Ospitalità è gentilezza e, in questo per niente insignificante dettaglio, troviamo già una delle chiavi di lettura di Perfect Days: è un film gentile.

Una sceneggiatura scritta in solo un mese (“SOLO UN MESE!” continua a ripetere soddisfatto nei Q&A agli sceneggiatori in sala) con l’autore e poeta Takuma Takasaki, e un film realizzato in 16 giorni e che è volato agli Oscar, candidato a Miglior Film Straniero.

Il protagonista Hirayama è interpretato magistralmente dall’attore Koji Yakusho, che Wenders ha voluto a tutti i costi nel film perché innamorato del suo sguardo e di una certa innegabile grazia, che ritroviamo in Hirayama. Il film è un susseguirsi di gesti, di pause e di giornate su cui Wenders si sofferma con occhio attento e delicato. Accade poco e Hirayama è contento. Gli spettatori – per fortuna pochi – un po’ meno. Tutto qui? Il film ha sollevato anche alcune – per fortuna poche – critiche. Sì risponderei, nel senso di qui c’è tutto.

Dal momento in cui si alza la mattina, fino a quando torna a letto, Hirayama è presente a sé stesso e agli altri. Se l’amato Phil / Bill Murray di “Ricomincio da capo” subisce il ripetersi costante e noioso di una vita in cui è assente e contro cui lotta costantemente, Hirayama abbraccia con amore e si lascia fluire in qualcosa di più grande e misterioso, e in quei perfect days, apparentemente tutti uguali, sublima invece l’essenza del vivere. Non ha bisogno di una sveglia per aprire gli occhi la mattina (probabilmente non ha neanche un orologio) si sveglia da solo, il suo tempo è scandito dalla natura, in armonia con l’esistenza. Perfect Days è il trionfo dell’analogico ma non perché ci sia un senso di superiorità in Hirayama, semplicemente non sa neanche cosa sia il digitale, quindi non ne ha bisogno.

Quando sua nipote gli chiede se quella canzone è su Spotify, lui le dice “non so, dove sta questo negozio?” (capendo Shop-qualcosa). Lei ride, lui non capisce e senza scomporsi continua a guidare, piccolo e piano, in quella enorme tecnologica vasca oceanica futurista di nome Tokyo.

Musicassette per la radio del suo furgoncino blu, una vecchia macchina fotografica con rullini da sviluppare, un libro prima di andare a dormire, la bicicletta, giocare a tris con una penna e un foglio. Ci sono molti alberi nel film, da fotografare, da osservare, sono nel libro di poesie che compra di Aya Koda, “Tree”, o racchiusi nella parola Skytree, la torre altissima di Tokyo che vede ogni volta che va a lavoro. Possiamo imparare qualcosa dagli alberi? Per Hirayama questo è certo, sicuramente a sorridere davanti al Komorebi, i raggi del sole tra le fronde.

Hirayama si distingue dagli altri, parla pochissimo e fa una cosa alla volta. Nei suoi gesti semplici e ripetitivi, ma mai meccanici perché l’essere meccanico escluderebbe lo spirito che invece permea l’intero film, si racchiude qualcosa di raro: la devozione e la totale attenzione verso ciò che sta facendo, non solo a lavoro, ma anche nel  tempo libero, nei luoghi che frequenta, nell’osservare (non importa chi o cosa, se quel signore un po’ matto o il cielo), nel sentire il tutto attorno a sé.

Il film ha, tra i tanti pregi, quello di farti appassionare a semplici gesti, non al cosa si fa ma al come lo si fa. Nei bagni vetrati ed ipertecnologici che diventano opachi quando sono occupati e tornano trasparenti una volta liberi, Hirayama usa uno specchietto per vedere meglio dove è rimasto dello sporco, piega la carta igienica come fossimo in un hotel a 5 stelle, prova il getto dell’acqua del bidet per accertarsi che sia tutto ok. Ha il lavoro più regale del mondo, qualunque cosa faccia.

Il potere di adesso di Eckhart Tolle, il wabi-sabi, il Reiki.

Il maestro spirituale ed autore Eckhart Tolle nel suo libro di maggior successo, Il Potere di Adesso, dà  indicazioni su come vivere al meglio eliminando pensieri negativi, preoccupazioni proiettate nel futuro o ferite del passato. Essere qui ed ora è il solo modo di eliminare le nostre sofferenze grazie alla nostra coscienza e consapevolezza. Essere felici è immergersi pienamente nel momento presente.  Hirayama è questo, e lo è naturalmente, senza pensarci, come un fiore che fiorisce senza chiedersi perché. “Dopo è dopo, ora è ora” dirà  a sua nipote che va a trovarlo. Concetto che ritroviamo anche nel wabi-sabi che nella cultura buddista è l’arte zen di vivere in maniera essenziale, semplice, con accoglienza, nel momento. Anche i cinque principi nel Reiki, pratica spirituale che ha le sue origini proprio in Giappone, fanno pensare ad Hirayama (non arrabbiarti, non preoccuparti, sii grato, lavora con devozione, sii gentile). Ma senza pensare che sia perfetto o non provi nulla, altroché. È un essere umano, si arrabbia, prova tristezza, forse si preoccupa anche, ma è nel Now.

Andare oltre le parole. Hirayama parla poco ma noi cogliamo il suo sentire attraverso una colonna sonora che diventa un po’ la sua voce e i suoi pensieri. Una colonna sonora dei preferiti di Wenders, che è su Spotify (e dov’è questo shop-fy?)

Sono canzoni cult, bellissime, di amori e attese, stare insieme o mancarsi, sedersi osservare aspettare sperare, rinascere. Le conosciamo, sia ad Est che ad Ovest, a Nord o a Sud. Nei perfect days, fatti di pienezza, i dialoghi sono spesso questi testi.

Tokyo la scopriamo dopo pochi minuti, enorme e ancora addormentata, sulle note di House of The Rising Sun, The Animals:

Pale Blue Eyes, The Velvet Underground:

(Sitting’ On) the Dock of the Bay, Otis Redding:

Redondo Beach, Patti Smith:

(Walking’ Thru The) Sleepy City, Rolling Stones

Blue Fish, Sachiko Kanenobu

Perfect Day, Lou Reed

Sunny Afternoon, The Kinks:

Brown Eyed Girl, Van Morrison:

Feeling Good, Nina Simone:

Il finale, Wenders lo ha lasciato all’attore Koji Yakusho che letteralmente improvvisa uno dei sentimenti più belli, autentici e indefinibili mai rappresentati su schermo (Wenders non gli aveva dato indicazioni se non quella di pensare a come uscire dalla scena e da tutto il film, in macchina). Sublimato da Nina Simone che accompagna quel sentire con Feeling Good, vero manifesto di tutto il film.

Ridere e piangere insieme. Cosa prova davvero Hirayama nel finale? Ognuno di noi lo sa. Una gratitudine, commozione verso la vita, di fronte ad un sole che scalda, per cui continuiamo a fluire. O magari altro, ognuno di noi lo sa e può riempire quello spazio interiore come crede.

“Le ombre diventano più scure quando si sovrappongono?”. “Non lo so, scopriamolo”. Vorrei imparare da lui, ogni visione apre alla bellezza della semplicità. Un film da accogliere, osservare e rivedere, come direbbero quelle due amiche, che “vorrei non finisse mai”. Ora su MUBI.

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