Si è chiusa con un bilancio ampiamente soddisfacente per il cinema italiano l’edizione numero 71 del Festival di Cannes che ha assegnato la Palma d’Oro a “Shoplifters” di Hirokazu Kore-eda.
Prima di addentrarci nell’analisi di ciò che è emerso da quest’ultima edizione del Festival di Cannes una precisazione è assolutamente necessaria: non sono stato a Cannes! Tutto ciò che leggerete da qui in avanti non ha quindi la pretesa di commentare le opere in concorso e neppure le scelte della giuria. In queste poche righe vorrei però provare a sintetizzare gli umori che il Festival ha sprigionato facendoli arrivare fino a noi che lo abbiamo seguito da lontano.
La prima sensazione che emerge è che, dopo l’evidente delusione dell’edizione del 2017, le cose non siano andate affatto meglio quest’anno. Ad un cartellone che non aveva suscitato grandissimi entusiasmi in sede di presentazione si è aggiunta la freddezza con cui sono state liquidate le opere di alcuni degli autori più attesi: in particolare penso al film di apertura “Everybody knows” dell’iraniano Ashgar Farhadi ed a quello di chiusura del concorso “The wild pear” del turco Nuri Bilge Ceylan. Due opere interessanti, ma al di sotto degli altissimi livelli a cui i due registi ci hanno abituato
Chi fa festa quest’anno è certamente l’Italia che esce dalla rassegna francese con un doppio premio che va a rendere merito al lavoro di due delle migliori espressioni del nostro cinema. “Dogman” di Matteo Garrone (a cui Fuori di Cinema dedica uno specifico articolo) è arrivato nelle nostre sale in contemporanea con la presentazione a Cannes ed il consenso unanime che lo sta accompagnando lo ha già elevato al rango di capolavoro. Il premio per la migliore interpretazione maschile a Marcello Fonte ammanta di un tono quasi fiabesco la vita del film, regalandoci un personaggio destinato a rimanere nella Storia del cinema. Per Alice Rohrwacher autrice di “Lazzaro felice”, cui è andato, ex aequo con Jafar Panahi (“Three faces”), il premio per la migliore sceneggiatura, si tratta invece della definitiva consacrazione dopo il Gran Prix de Jury ottenuto nel 2014 con “Le meraviglie”. I titoli e le locandine dei suoi film sono rivelatori di quella dimensione quasi incantata in cui Alice continua a collocare le sue storie ed i suoi personaggi, il suo cinema del reale che affonda le radici nella tradizione bucolica si fa magico ed, a tratti, addirittura surreale: le sue opere si ritagliano così uno spazio quasi unico nel panorama cinematografico internazionale, anche se in molti vedono in lei la più naturale erede del cinema di Ermanno Olmi. Lazzaro (Adriano Tardiolo) è un’anima immacolata di cui il mondo si prende un po’ gioco, il suo è un altro personaggio di cui siamo destinati ad innamorarci riconoscendo in lui quei sentimenti di tenerezza e solitudine che, in un contesto ben diverso, abbiamo già visto esprimere dal Marcello di Dogman.
In un’edizione con poche opere degne di nota il palmares ha finito con il rispettare abbastanza fedelmente i pronostici della vigilia. La Palma d’oro è andata a “Shoplifters” di Hirokazu Kore-eda, un film che era immediatamente balzato in testa ai favori dei pronostici e che ha confermato la vocazione del maestro giapponese a lavorare sulle relazioni umane. Da “Father and son” a “Little sister” e “Ritratto di famiglia con tempesta” è evidente come sia la famiglia, soprattutto nelle sue opere più recenti, il terreno che Hirokazu Kore-eda preferisce esplorare. Con Shoplifters la sensazione è che questo percorso continui, anche se molte sorprese si nascondono nello sviluppo narrativo di quella che sembra a tutti gli effetti l’ennesima famiglia di cui vuole raccontarci le dinamiche relazionali. Ciò che tiene insieme le persone non deve essere necessariamente un legame di sangue, così come un atto illecito non deve essere necessariamente considerato un atto immorale: questo è ciò su cui il film ci invita a riflettere.
Spike Lee con Cannes aveva probabilmente un conto in sospeso da quando nel 1989 la giuria non assegnò nessun premio alla sua opera culto “Fa’ la cosa giusta”. Quest’anno porta invece a casa il Gran Prix de Jury con “BlacKkKlansman”, che racconta attraverso toni acidi e battute irriverenti la vera storia di un poliziotto infiltratosi nel Ku Klux Klan. Il film, che si apre con un monologo razzista ed irritante di Alec Baldwin, è da leggersi come una potente invettiva contro l’America trumpiana. I giudizi positivi sul film sono stati numerosi, ma tutt’altro che unanimi.
Il film che maggiormente ha diviso la critica al Festival è però sicuramente “Capharnaum” di Nadine Labaki, che, grazie all’utilizzo di attori non professionisti ed in particolare del 14enne Zain (nel film dice di averne 12 ma l’età non è certa perchè di lui non si trovano documenti), racconta una storia di povertà e disagio sullo sfondo della guerra in Medioriente. Zain è talmente arrabbiato contro la vita da arrivare ad intentare una causa contro i genitori per averlo messo al mondo e costretto a tanta sofferenza. Il film, che ha vinto il premio della Giuria, ha a lungo accarezzato il sogno della Palma d’oro, avendo in se tutte le caratteristiche per conquistare il pubblico ed i giurati con sentimenti molto forti ed abbondante ricorso alle lacrime, ma una parte della critica ha contestato alla regista libanese la spettacolarizzazione del dolore e l’eccessiva enfasi con cui esso viene sottolineato fino a risultare, dicono, puro esercizio retorico. In molti hanno parlato addirittura di un film dai toni ricattatori.
Chi invece pare abbia saputo confermare lo straordinario risultato del suo precedente film, “Ida”, è Pawel Pawlikowski (vincitore della Palma per la migliore regia) che in “Cold war” ripropone gli stessi canoni formali del formato 4:3 e della fotografia in bianco e nero per raccontare a tempo di musica una grande storia di amore impossibile sullo sfondo di una Polonia che faticosamente tenta di rialzarsi al termine della seconda guerra mondiale. Il dinoccolato pianista jazz Viktor e la sensuale cantante Zula portano i nomi dei genitori del regista, cui il film è dedicato. Molti elementi accomunano il film di Pawlikoski a “Leto” di Kirill Serebrennikov, altra opera, che seppure accompagnata da un giudizio della critica meno concorde, era stata accostata a qualche possibile premio finale. “Leto”, anch’esso girato in bianco e nero, è un altra storia d’amore raccontata attraverso la grande passione per la musica ed il ritatto della crisi sociale e politica del suo paese, la Russia. Protagonista del film è una rock band, i Kino, sconosciuti all’estero, ma considerati in patria i loro Beatles, il film pone però l’accento soprattutto sul fallimento di una generazione che non è riuscita a realizzare la propria rivoluzione.
Quello che sorprende del palmares è la quasi totale assenza del cinema francese, cui va solo la Palma d’oro speciale riservata a Jean Luc Godard, un premio che omaggia la carriera di uno dei più grandi autori della storia del cinema, ma che probabilmente poco ha a che vedere con l’opera proposta in concorso, “Le livre d’image”, che conferma la fase di totale sperimentazione del regista . Un premio ai francesi sarebbe stato invece lecito attenderselo per “En guerre” di Stephane Brizè, film che riprende il discorso sulla precarietà nel mercato del lavoro già avviato con “La legge del mercato” che era valso a Vincent Lindon la Palma per la migliore interpretazione maschile nel 2015. Lo stesso Lindon è protagonista di questo film che trascina emotivamente lo spettatore all’interno della protesta dei lavoratori di un’azienda che minaccia la chiusura del loro stabilimento nonostante i buoni profitti raggiunti.
A margine del concorso ufficiale fa piacere ricordare che l’ottimo risultato del cinema italiano si completa con il Premio Europa Cinemas Label a “Troppa grazia” divertente commedia di Stefano Zanasi con Alba Rohrwacher, Elio Germano e Giuseppe Battiston e con il Premio Oeil d’or per il miglior documentario tra tutte le sezioni del festival a “La strada di Samouni” di Stefano Savona che racconta la tragedia nella striscia di Gaza attraverso gli occhi della piccola Amal e l’animazione di Simone Massi.