Terry Gilliam e il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes: ispirazione, identificazione, ossessione, condanna. Un processo graduale e inevitabile che ha portato Gilliam per 25 anni, la pre-produzione del film in realtà risale al 1989, a intraprendere una battaglia, l’espressione donchisciottiana qui assume una valenza sinistra, per la realizzazione del suo film L’uomo che uccise Don Chisciotte.
Terry Gilliam ha sfidato un po’ tutti in questi anni, come racconta nel documentario Lost in La Mancha: produttori che lo hanno denunciato (vincendo anche la causa e dichiarando illegale la natura del film), la natura stessa, durante le riprese effettuate nel 2000 con Johnny Depp e Jean Rochefort protagonisti il set era stato travolto da un nubifragio e rovinosamente imbrattato, la malattia, sempre durante quel set Jean Rochefort, colto da un’infezione, era stato costretto a rinunciare alle riprese, e persino la morte. Sì, la scomparsa dei due attori scelti nel tempo per interpretare Don Chisciotte, Rochefort appunto e John Hurt, ma anche la sua stessa morte. Gilliam, infatti, è stato colpito da un malore prima della proiezione del film al Festival del Cinema di Cannes di quest’anno, dato per spacciato da più fonti, è tornato col sorriso derisorio di chi sa che l’uomo che uccise don Chisciotte in realtà non esiste. Don Chisciotte vive, Quixote vive e nel suo film questa consapevolezza diventa anch’essa viva e dichiarata.
Toby (Adam Driver, qui in una veste gloriosamente impacciata e imperfetta) è un regista di spot di successo che si trova a Madrid su un set di ispirazione, nemmeno a dirlo, donchisciottiana. L’incontro con un gitano e il ritrovamento casuale dell’introvabile dvd del suo primo lavoro sempre su Don Chisciotte, realizzato nei pressi di Madrid, lo spinge alla ricerca degli interpreti di quell’opera prima, per ritrovare la purezza e forse anche l’ispirazione perduta. Ma ognuno di loro è stato come macchiato e definitivamente contaminato da quella pellicola: Don Chisciotte (uno splendido, splendido Jonathan Pryce) non è mai uscito da quel ruolo e, dentro un carretto (che oscilla tra quello del Professor Meraviglia de Il Mago di Oz e una scenografia felliniana) continua a narrarne le gesta, recitando a memoria le battute del film; e Dulcinea, prosopopea della purezza, amareggiata e delusa dalle sue stesse ambizioni è finita per prostituirsi.
Da lì in poi, il film si dipana nell’intreccio tra finzione romanzesca e realtà, quella di Gilliam e quella del suo protagonista, tra passato e presente, tra gli ideali destinati a morire e quelli che, invece, vivono per sempre, perché sono creature indipendenti e staccate da noi. La vita si impone con violenza e ci sporca, ma c’è stato un momento, forse uno solo, in cui ci siamo sentiti più forti di lei, lindi e integri. E quel momento continua a vivere, come Don Chisciotte, come Terry Gilliam che ne ha fatto il suo manifesto, ha ricevuto da noi il diritto all’immortalità e quando ce ne ricordiamo, cambia tutto.
/// il trailer ///
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