Gioco, partita, incontro. Il tennis sul grande schermo è vincente

Il cinema si era interessato finora molto poco al tennis e mai aveva provato a raccontare l’epica dei suoi grandi campioni, ma nelle ultime settimane sono arrivate nelle nostre sale due film di notevole interesse: “La battaglia dei sessi” e “Borg McEnroe”.

Le imprese sportive raccontate al cinema spesso mi hanno lasciato perplesso, anche se soprattutto pugilato ed automobilismo hanno saputo consegnarci opere di valore assoluto. Le mie perplessità sul cinema sportivo sono prevalentemente legate a quel linguaggio troppo semplicistico (adatto evidentemente anche ad un pubblico di non appassionati) con cui il gesto atletico viene solitamente raccontato. Forse non sfuggono a tale limite nemmeno questi due film che puntato la loro attenzione su due match che, per diversi motivi, hanno segnato la storia del tennis. Ne “La battaglia dei sessi” i registi Jonathan Dayton e Valerie Faris (autori del film culto “[amazon_textlink asin=’B002HQYXYY’ text=’Little Miss Sunshine’ template=’ProductLink’ store=’fuoridicinema-21′ marketplace=’IT’ link_id=’be5a7c75-c9ee-11e7-87f1-c57cea12e14a’]”) raccontano l’incontro di esibizione che nel 1973 vide la campionessa Billie Jean King (Emma Stone) affrontare il 55enne Bobby Riggs (Steve Carrel), ex numero 1 del ranking maschile, in una sfida che travalicò il significato sportivo per assumerne uno più profondo sul piano sociale. In “Borg McEnroe” il regista svedese Janus Metz sceglie di realizzare un ritratto dei due grandi campioni facendolo culminare nell’incredibile finale di Wimbledon del 1980.

borg mcenroe

Quello che immediatamente colpisce del film di Metz è lo straordinario lavoro fatto sui due protagonisti che raggiungono un tale livello di verosimiglianza da far dimenticare che quelli sullo schermo sono solo due attori (Sverrir Gudnason e Shia LaBeouf). Il ritratto dei due campioni scorre in parallelo alternando le tappe agonistiche di avvicinamento alla grande finale con il percorso di crescita umana. L’obbiettivo dell’autore è quello di mostrarci quante cose abbiano in comune due personaggi apparentemente tanto diversi tra loro, ma la prima parte del film non si discosta troppo dalla formula del classico biopic cercando nel passato, nell’educazione familiare, nella rigidità dei primi allenamenti la spiegazione della personalità sviluppata da ciascuno di loro (ad interpretare lo svedese da adolescente è suo figlio Leo). Il primo scatto in avanti il film lo fa quando ci fa cogliere la dimensione da rockstar che i due atleti stavano acquisendo agli occhi dei loro fans. E’ però la lunga parte conclusiva la vera forza del film. La finale tanto attesa non è più un semplice epilogo narrativo, la resa dei conti tra i più forti di cui però già si conosce il finale. Avere memoria dell’esito del match non impedisce allo spettatore di essere trascinato in questo vortice di emozioni e Metz è molto bravo a non volersi soffermare sugli scambi (di punti giocati ce ne mostra davvero molto pochi), quello che interessa al regista è farci percepire ciò che riuscirono a produrre, fondendosi, la potenza dell’atleta e il pathos dell’uomo. Il montaggio frenetico, il gioco di inquadrature, il lavoro fatto sui suoni fanno completamente dimenticare la voce off del cronista e la sensazione di essere sul centrale di Wimbledon in quel pomeriggio di luglio del 1980 da sola vale il prezzo del biglietto. “Borg McEnroe” è stato votato dal pubblico come miglior film della recente Festa del Cinema di Roma.

La battaglia dei sessi

Totalmente diverso è l’approccio de “La battaglia dei sessi” che parte dal racconto delle rivendicazioni portate avanti da un gruppo di tenniste statunitensi guidate da Billie Jean King per allargare lo sguardo su una più ampia battaglia che le donne proprio in quegli anni affrontavano nel paese. Sul piano strettamente sportivo la richiesta di mettere a disposizione delle donne montepremi simili a quelli degli uomini culminò nella nascita dell’associazione WTA che ancora oggi gestisce autonomamente il circuito tennistico femminile. Emma Stone, reduce dall’Oscar per “La la land”, ha lavorato tantissimo sulla costruzione fisica del personaggio, accettando anche di mettere peso e massa muscolare, ma sullo schermo colpisce soprattutto per la capacità di conferire a Billie Jean King il giusto mix di forza e fragilità interiore. La battaglia civile per il riconoscimento dei diritti delle donne si incrocia infatti con la scoperta della sua omosessualità e con le difficoltà affrontate nel portare alla luce la sua relazione amorosa in un paese ancora attanagliato da un profondo bigottismo, di cui diventa emblema la sua principale rivale Margaret Court. Steve Carrel, dal canto suo, è perfetto interprete del personaggio di Bobby Riggs, patetica e folcloristica espressione del più becero maschilismo. La sfida sul campo lanciata da Riggs per dimostrare la superiorità del maschio fu raccolta per prima dalla Court che ne uscì però pesantemente sconfitta. Solo successivamente si arrivò allo storico incontro di Houston, svolto davanti ad oltre 30 mila spettatori e con moltissimi canali televisivi collegati in diretta, che vide finalmente di fronte Riggs e la King. La scelta dei registi è quella più canonica di mostrarci in maniera evidente gli scambi ed i punti messi a segno e a tale scopo pare che da parte loro sia stato estremamente meticoloso il lavoro di ricostruzione delle reali fasi di gioco. Il registro del film sa alternare opportunamente momenti divertenti, per lo più affidati alle imbarazzanti performance di Riggs, ad altri più toccanti che riflettono il sofferto percorso della King. La bellissima colonna sonora contribuisce a ricreare perfettamente le suggestioni dell’epoca. Al film vengono accreditate buone possibilità di entrare nelle candidature agli Oscar 2018.

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