Proprio nei giorni in cui il protagonista Christian Bale vince il Golden Globe come miglior attore, esce in Italia Vice di Adam Mckay, bellissimo film che dipinge un affresco divertente, sfrenato e intelligente degli ultimi 40 anni della politica americana; raccontandone una delle figure politiche chiave: Dick Cheney (appunto impersonato da Bale).
Vicepresidente sotto l’Amministrazione Bush, prima Segretario alla difesa, e ancora prima Capo di Gabinetto alla Casa Bianca sotto altre amministrazioni Repubblicane.
Insomma, un dinosauro dei corridoi del potere di Washington. Che, rispetto ad altri pari livello della sua epoca o di altre, è stato una figura ancora più significativa. Ha percorso infatti dei passaggi della Storia fondamentali (l’11 settembre, la successiva guerra ad Al Quaeda e all’Iraq..), rimanendo comunque una figura “di secondo piano”, ma assumendo una rilevanza strategica insostituibile, della quale l’America, e il mondo, secondo Mckay, ancora oggi vivono le conseguenze. Questo ci racconta McKay, in un grande film.
Vice, sostenuto da un gruppo eccezionale di attori, è un grande film poichè, analogamente a La grande scommessa dello stesso regista (in cui si parlava della la crisi finanziaria del 2008), viene assunto il tono della commedia per avvicinare lo spettatore a tematiche complesse, e la sfida di riuscire a essere credibili nel racconto di vicende politiche mantenendo questo registro, è vinta. E’ un grande film perchè ha il ritmo incalzante e coinvolgente dei migliori Scorsese (vengono in mente The Wolf of Wall Street e Goodfellas in tal senso), e le trovate narrative e di regia degne di quel favoloso film che è stato Il Divo di Sorrentino (un altro biophic su una figura controversa della scena politica). Su tutte, il presentare un cosiddetto sliding doors della vita di Cheney mettendo in immagini dei finti titoli di coda del film che fanno preludere una fine della storia che non c’è stata; oppure la potentissima immagine del cuore trapiantato a Cheney, in primo piano, in montaggio alternato ad un passaggio familiare di raro cinismo, in cui Cheney e la moglie Lynne (Amy Adams), per sostenere la carriera politica di una delle loro figlie, fanno del male all’altra loro figlia. Cheney, il gigantesco e misterioso uomo senza cuore, è mostrato e svelato in tutta la sua silenziosa e in fondo maligna forza d’animo, contrapposta alla fragilità del corpo. McKay, insomma, si è nutrito di cinema, ha studiato dai grandissimi, anche pensando ad un particolare della voce narrante fuori campo, che non può non farci ricordare Viale del Tramonto di Billy Wilder…
Vice è un grande film perchè il regista sceglie di strutturare la storia alternando passato e presente attorno ad alcuni eventi ‘chiave’ utili a ricostruire le tappe principali della carriera e dell’evoluzione umana del personaggio, e che ritorano a più riprese nel film. E allora abbiamo il decisivo confronto con la moglie in gioventù, che fece deviare Cheney dal suo vizio dell’alcool, la decisiva conoscenza con Donald Rumsfeld (ex segretario alla Difesa impersonato da Steve Carell); la spinta per la creazione dei network di opinione politica; la carriera da CEO nella multinazionale del petrolio Halliburton; la decisiva offerta della Vicepresidenza degli Stati Uniti da parte di George W. Bush (Sam Rockwell) nelle presidenziali del 2000 e la conseguente, sofferta e calcolata decisione di accettare; la guerra all’Iraq e poi i metodi di tortura a Guantanamo e le conseguenze geopolitiche che ne sono scaturite negli anni a venire.
Infine, la grandezza del film e dello sguardo di McKay, risiedono nell’arrivare fino ai giorni nostri e a far dissolvere in un’oscurità degna di Cuore di Tenebra, la grande e criptica figura di quest’uomo politico negli albori di quel populismo che avrebbe poi, con Trump e con altri, trionfato in America, in Italia, nel mondo. Un Dick Cheney che intervistato sulle responsabilità politiche e morali della inutile Guerra in Iraq, chiude il film asserendo in maniera ferma: il popolo è dalla mia parte. Quel popolo che sono anche i gruppi di opinione americani su cui la cinepresa di McKay si posa, in cui ci si azzuffa o si sta per condividere la vacuità dei nostri giorni sui social network.
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