E’ disponibile dal 3 maggio in dvd, e prossimamente anche sulle piattaforme di streaming, Un valzer tra gli scaffali del regista tedesco Thomas Stuber. Il film, presentato lo scorso anno alla Berlinale e tratto da un romanzo di Clemens Meyer, tocca i temi del lavoro, ma si pone, parallelamente, come ritratto di solitudini e racconto di un amore più agognato che vissuto.
Siamo alla periferia di Dresda, all’interno di un ipermercato, in un mondo dal quale raramente il regista Thomas Stuber ci lascia evadere, proprio come accade a quei lavoratori che, nonostante tutto, sembrano aver preso coscienza del fatto che il lato migliore della loro vita è quello che si consuma tra corridoi e scaffali. Qualcuno finge di avere una vita vera al di fuori di quel posto di lavoro, qualcun’altra della vita che c’è fuori preferisce non parlarne. E poi c’è Christian, che di questo gruppo di lavoratori è “il novellino”. Lui è un ragazzo timido e stralunato che però sa ascoltare i consigli di Bruno, suo anziano collega al reparto bevande, e sa fare breccia nel cuore di Marion, la responsabile del reparto dolciumi, donna solo in apparenza più sicura e determinata.
Bruno si prende cura di Christian sin dalla vestizione del camice con cui lo avvia al nuovo lavoro, ma è soprattutto quando gli insegna a manovrare quei carrelli elevatori, che del film sono protagonisti quasi alla stregua degli attori, che sembra indossare i panni di un padre. Marion invece dispensa sorrisi così teneri e persuasivi da scalfire anche l’imperscrutabile riservatezza di Christian. Il distributore automatico del caffè diventa ben presto testimone e complice di questo inatteso connubio, ma perchè gli incontri ed i caffè si possano consumare c’è bisogno che i turni di Christian e di Marion riescano ad allinearsi sullo stesso fuso orario.
Il dramma del lavoro è raccontato attraverso l’annullamento delle competenze e la ripetitività del gesto con un meccanismo che crea spersonalizzazione ed alienazione. Il regista preferisce però limitarsi a fornirci una fotografia del contesto senza necessariamente dover scendere nell’agone della lotta di classe. Anzi, per evitare a priori che il suo racconto possa incamminarsi su quella strada, elimina del tutto la figura dell’ipotetico altro contendente, il padrone. Il film non perde, in tal senso, la sua valenza politica ma piuttosto che indagarne le questioni sindacali preferisce volgere lo sguardo a come evolvono i caratteri e le relazioni umane all’interno di un meccanismo lavorativo che di umanità sembra non averne più tanta. La solitudine si palesa come la più dolorosa forma di povertà davanti alla quale però anche il più triste dei lavori acquista dignità facendosi portatore del sentimento di solidarietà tra colleghi. Il messaggio politico che Stuber intende affidare al suo film forse è proprio quello che solitamente racchiudiamo nell’espressione “restiamo umani”.
Fatte queste premesse è evidente che il film di Stuber si colloca molto più dalle parti del cinema di Kaurismaki che non di quello di Loach o dei Dardenne. Il racconto procede con tempi lenti ed è perennemente ammantato da un’aurea di malinconia, ma la grazia infinita dei suoi personaggi fa si che ogni scena arrivi allo spettatore come un dono. La lentezza, in quest’epoca di insensata frenesia, è essa stessa un dono, nelle azioni come nelle relazioni.
L’amore è un capitolo a parte, Christian e Marion hanno la consapevolezza di non poterlo vivere fino in fondo (lei sembra incapace di uscire da un matrimonio che riusciamo solo a percepire come soffocante per i suoi slanci vitali) ma i due amanti hanno sguardi colmi di tenerezza e sono meravigliosi nell’elevare quel sentimento al di sopra di ogni dimensione fisica o della logica del possesso. Il loro rapporto si nutre di riti magici e di una gestualità dolcemente infantile. La momentanea uscita di scena di Marion coincide inevitabilmente con quel tratto di racconto che si fa più realistico e dolente.
Ad impreziosire ulteriormente l’opera c’è l’elegante regia di Stuber che, con pochissimi movimenti di macchina, dipinge scenari di formidabile suggestione. La prospettiva in campo lungo di quei corridoi scanditi da scaffali riccamente addobbati di merci crea quadri di architettura “commerciale” che Stuber è bravissimo a fotografare ed a consegnare allo sguardo incantato dello spettatore. Bellissime sono anche le scene ritratte in esterno con l’autostrada a costeggiare il percorso seguito da Christian. Sembra quasi che Stuber ami sfidare l’aridità dei luoghi immortalati riuscendo a ricavarne bellezza. Anche se sa mostrarsi a suo agio anche quando (succede una sola volta) si ritrova a rincorrere il suo protagonista all’interno di una casa finemente arredata.
Bravissimi sono gli interpreti ai cui occhi è richiesto uno straordinario lavoro di espressività. Franz Rogowski lo avevamo conosciuto in Happy end di Michael Haneke e più recentemente lo abbiamo ritrovato ne La donna dello scrittore di Christian Petzold. Di Sandra Huller ricordiamo il folgorante esordio in Requiem, che le valse l’Orso d’argento per la migliore interpretazione femminile a Berlino 2006, e il bellissimo personaggio della figlia in Vi presento Toni Erdmann, il film di Maren Ade che nel 2016 fece incetta di premi agli EFA e nel 2017 arrivò in cinquina agli Oscar. Bruno invece è l’attore Peter Kurth che il pubblico italiano ha imparato a conoscere grazie alla serie tv Babylon Berlin.
Il valzer aggiunto nel titolo italiano è il classico espediente che serve a rimarcare il carattere romantico della storia (il film da noi è uscito il 14 febbraio), ma durante il turno di notte tra gli scaffali dell’ipermercato riecheggiano soprattutto le note della bellissima The devil never sleeps, perché ovunque c’è amore c’è pur sempre un demone pronto a contrastarlo.
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