Dopo la presentazione in anteprima al Festival del Cinema di Venezia, che ha commosso ed emozionato il pubblico del Lido, è uscito nel weekend sulla piattaforma Netflix e in alcune sale cinematografiche, “Sulla mia pelle”, di Alessio Cremonini, il film che racconta l’ultima settimana di vita di Stefano Cucchi (interpretato da Alessandro Borghi), arrestato nella notte del 15 ottobre 2009 a Roma e deceduto il 22 ottobre all’ospedale Sandro Pertini.
La forza di questo bel film, sta nell’avere il coraggio di raccontare la vicenda di Cucchi in maniera asciutta, senza concessioni di tipo ideologico o alla spettacolarizzazione filmica della tragedia. Il regista infatti non nasconde di dare evidenza a come, nel calvario di quei giorni, Cucchi abbia anche incontrato dei rappresentanti delle Istituzioni e delle Forze dell’Ordine che parevano essersi resi conto di quanto stava vivendo e aveva subito nell’aggressione. Cucchi non è messo in scena come un martire: non viene infatti nascosto il passato da tossicodipendente di Cucchi, né il suo presente fatto di consumo di stupefacenti al momento dell’arresto. Viene inoltre restituita la serie di contraddizioni dell’uomo, che dapprima rifiuta qualsiasi tipo di assistenza sanitaria e poi, con il progredire della sua agonia, torna su posizioni diverse.
Nel film non vengono mostrate le violenze fisiche perpetrate a Cucchi nella notte del suo arresto, né ci sono momenti in cui arriva la “spinta” del commento musicale ad accendere nello spettatore la deflagrazione della sua commozione. E in questa scelta di Cremonini il film trova la sua forza migliore, nell’accompagnare gli ultimi giorni della vita di Stefano Cucchi sottraendo tutto quello che non è funzionale al racconto della verità (perlomeno della verità processuale, per come essa è emersa nel corso dei vari processi). Parimenti, la famiglia di Cucchi ci viene restituita con un tono dimesso (impersonato impeccabilmente soprattutto da Max Tortora nel ruolo del padre, e poi da Jasmine Trinca in quello della sorella Ilaria e Milvia Marigliano nel ruolo della madre), un tono che intende intercettare lo straniamento di persone catapultate in una vicenda drammatica, che diventa atroce e inaccettabile, quando viene negato loro di poter vedere il loro figlio e fratello, adducendo motivazioni sempre differenti di giorno in giorno.

Jasmin Trinca, Max Tortora, Milva Marigliano
Un film, dunque, che è una testimonianza necessaria di una vicenda incredibile della cronaca italiana recente. Un film che ci invita a riflettere sull’importanza della solidarietà e del senso di responsabilità che dovrebbero essere alla base della convivenza civile in uno Stato democratico evoluto. Quello che resta nella mente, infatti, è il contrasto tra il volto di Stefano Cucchi/Alessandro Borghi, colpito e sofferente, il suo corpo martoriato nella solitudine della cella e della stanza d’ospedale, e la moltitudine di volti di uomini e donne delle Istituzioni che in quei giorni a vario titolo, dalla presa in carico giudiziaria alla presa in carico “sanitaria” della sua situazione, lo hanno incontrato e conosciuto, e furono in qualche modo investiti di un dovere di scelta, di presa di posizione rispetto alla sofferenza di un uomo.
Le precise responsabilità penali individuali, di natura commissiva e omissiva, che hanno determinato la morte di Cucchi, sono ancora oggetto di accertamento durante il secondo processo. Le responsabilità di un sistema che lascia quasi inesorabilmente accadere la fine di un proprio cittadino che doveva “semplicemente” scontare una pena per le proprie azioni di rilevanza penale ed essere sostenuto in un percorso di recupero, dunque responsabilità Politiche, sono tutte lì in questa carrellata di volti e personaggi. Personaggi ora ripresi in primo piano, ora in piano medio dal regista. Guardando il film, in quella Roma del 2009 che non era molto diversa dall’Italia del 2018, potremmo vedere ripresi in campo lungo un pò ciascuno di noi.
/// il trailer ///