Dopo la calorosa accoglienza al Roma Film Fest arriva sugli schermi italiani Stanlio e Ollio uno dei biopic più attesi della stagione. Il film di Jon S. Baird riesce ad evitare tutte le trappole del genere (da me personalmente sempre poco amato) e ad offrirci un raro spaccato di umanità ed amicizia all’interno di un mondo che già negli anni ’50 si mostrava avaro di sincerità.
Chi ha il ricordo romantico della tv in bianco e nero, delle comiche al sabato dopo scuola e di quelle due bombette sotto le quali si nascondevano due corpi e due caratteri tanto diversi tra loro non potrà certo rimanere indifferente davanti al richiamo di quest’opera cinematografica che ha la saggezza di fotografare un momento ben preciso del percorso artistico ed umano della celebre coppia di comici americani, evitando accuratamente di ricorrere a stereotipi ed imitazioni che avrebbero avuto solo il sapore della parodia.
Servivano due attori che li ricordassero fisicamente, che fossero bravi a ricrearne la mimica ma che al tempo stesso avessero una dimensione artistica tale da consentirgli di portarli in scena con personalità ed autorevolezza. John C. Reilly e Steve Coogan sono due mostri della recitazione e con le loro interpretazioni sottraggono lo spettatore dalla necessità di ogni irragionevole confronto. Tra le prove più difficili che i due attori si sono trovati ad affrontare si narra che ci sia stata l’esecuzione (errori compresi) del celebre balletto che Laurel e Hardy avevano eseguito ne I fanciulli del West (o Allegri vagabondi) del 1937 e che molti anni dopo riproposero all’interno delle loro esibizioni in teatro.
Come si conobbero Laurel e Hardy? Quali furono i film (prevalentemente cortometraggi) che fecero la loro fortuna? Quanti e quali furono i loro amori negli anni di maggiore gloria? Tutto questo il bel film di Jon S. Baird non lo racconta. Il film preferisce puntare i riflettori sui momenti di crisi, quelli che per contrasto fanno emergere la dimensione umana dei due attori. I fatti narrati risalgono al 1953, ma un interessante prologo ci porta negli Hal Roach Studios dove nel 1937 si consumò, indirettamente, il primo divorzio tra Laurel e Hardy. Stan, in scadenza di contatto con la società di produzione di Roach e in aperto contrasto con quell’uomo che negli ultimi anni aveva posto sempre maggiori limiti al suo estro creativo (Hal Roach poco più tardi diede vita anche ad un sodalizio d’affari con Vittorio Mussolini, figlio del Duce), si vide costretto a separarsi dallo storico compagno di scena. Oliver, che tutti chiamavano “Babe”, in quegli anni viveva invece una serie di vicessitudini sentimentali che ebbero ripercussioni economiche tali da vincolarlo a progetti nei quali egli stesso non riponeva alcuna fiducia. Provò un percorso artistico individuale, ma il suo Zenobia, conosciuto anche come Ollio sposo mattacchione, fu un clamoroso flop e nel tempo diede luogo a non poca ironia, anche da parte di Stan, per il fatto che la sua compagna di scena nel film fosse stata un elefantessa. Quel divorzio forzato non fu immune da strascichi e segnò inevitabilmente il percorso umano prima ancora che artistico della coppia.
Ed eccoci nel cuore del film.
Quando nel 1953 Stan e Ollie partono alla volta di Southampton per una tourneè teatrale il loro declino trova il suo contraltare nell’ascesa di una nuova coppia comica, Gianni e Pinotto (a parte il nome oggi cosa ricordiamo di loro?), ma l’instancabile Stan cova ancora il sogno di realizzare un film ispirato alle avventure di Robin Hood, progetto nel quale evidentemente sono rimasti i soli a credere.
L’ambientazione britannica giova enormemente al film, conferendogli tutto il fascino di quei vecchi teatri che vanno lentamente sempre più riempendosi per restituire al talento dei due comici la dignità e l’affetto che meritano. Quotidianità e palcoscenico si mescolano continuamente e la sintonia artistica sembra essere il collante del loro rapporto anche quando tornano a misurarsi con la loro dimensione privata. La tourneè, si sa, costringe alla convivenza e alla cesistenza; l’arrivo delle rispettive mogli (caratteri particolarmente forti, ma opposti anche i loro) non aiuta a tenere saldo un equilibrio che continua a vacillare. Lo spunto narrativo è il libro di A.J. Marriott “Laurel & Hardy – The british tour”, ma ciò che fa la differenza (molto più di una regia che Jon S. Baird tiene ai limiti dell’essenziale) è la sceneggiatura di Jeff Pope, che proprio con Steve Coogan aveva firmato il bellissimo scritto di Philomena per la regia di Stephen Frears. Dalla sua “penna” emerge tutta l’eleganza e l’accuratezza del miglior cinema inglese. I dialoghi tra Stan e Ollie si svelano come preludio comico dei loro spettacoli, ma anche come espressione drammatica di una sofferta “storia d’amore” . Come in una coppia che vive di ferite e risentimenti, ma che conosce anche il valore profondo della lunga militanza, i due amici si spingono per abbattersi, ma al tempo stesso si trattengono per non crollare. Quando arriverà la malattia di Oliver ad imporre loro una nuova forzata separazione capiranno, senza più ricredersene, che mai nessuno dei due potrà fare a meno dell’altro.
Il film regala divertimento e commozione. Le risate sono tenere ed innocenti perchè sono quelle dei bambini che eravamo, le lacrime invece sono amare e malinconiche perchè hanno la consapevolezza degli adulti che siamo costretti ad essere. Dietro la maschera dei comici più grandi si cela sempre tanto dolore e Stanlio ed Ollio furono certamente tra i più grandi. Ora sappiamo anche il perchè.
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