Un percorso nel cinema di Quentin Tarantino, per sottolineare una peculiarità dell’autore: il gioco delle ripetizioni. Nelle varie forme della ripetizione: citazione, costante, rivisitazione e revisione, il segreto di un cinema che, al contrario, stupisce e disorienta. Il pastiche cinematografico più cerebrale e accurato che l’autorialità nel cinema abbia mai prodotto.
Quentin Tarantino è uno dei registi più seguiti e popolari del cinema contemporaneo, difficile parlarne senza dire banalità. Piace a tanti, a chi per i dialoghi dissacranti, a chi per la colonna sonora, per il ritmo scoppiettante, per la narrazione decostruita o per quell’effetto catartico che ha, per qualcuno, l’estremizzazione della violenza con tanto di splatter. Tutti hanno da dire quel che pensano su Tarantino, sapendo o non sapendo nient’altro di cinema, cogliendo appena il cinema che lui cita, quello dei maestri e/o quello della cosiddetta serie B. Tarantino è un onnivoro di cinema e nei suoi film “ricucina” tutto: un raggio d’azione tentacolare che, alla fine dell’operazione cine-culinaria, “acchiappa” il gusto di questo o quello e lo rende il regista più conosciuto di tutti nel panorama contemporaneo. Che lo idolatrino o meno, tutti conoscono e hanno visto almeno un film di Quentin Tarantino e fondamentalmente gli è piaciuto. Mentre chi ne ha visti 3-4, o anche tutti, alla fine magari si dice annoiato, lo taccia di “ripetitività”. Ma costoro sanno che quel che li annoia oggi altro non è che quello che all’inizio li aveva affascinati? La ripetizione è l’essenza del cinema di Tarantino.
In varie salse. La n.1 è la citazione:
citazióne […]2. a. Allegazione di documenti, riferimento di passi d’autore: un testo carico di citazioni; avere il gusto delle c.; fare una c. fuori luogo. Per estens., nel linguaggio della critica più recente, ripresa di motivi già noti, riecheggiamento di luoghi, passi, temi, situazioni, motivi di altre opere precedenti, in un’opera non solo letteraria ma anche musicale o scenica, in un film, in un’opera d’arte figurativa:il finale del film presenta una sequenza rapida di scene comiche che sono tutta una c. dai film più famosi di Chaplin.
Alla gente, come a lui, piace la citazione. La citazione è postmoderna, direbbero gli spettatori più colti. La citazione è rassicurante, sia perché cita qualcuno di autorevole e quindi pare servirci “verità” nell’epoca del nichilismo, sia perché ci coccola nella memoria di qualcosa che conosciamo e riconosciamo. Una citazione talmente servita bene che a volte è dichiarata come spunto creativo (Django Unchained che nasce dalle ceneri del Django di Sergio Corbucci del 1966), a volte solo un omaggio (la tuta gialla di Uma Thurmandi Kill Bill che è esplicito richiamo al look di Bruce Lee , a volte un’auto-citazione (le mille scene “dal bagagliaio”, i truck shots da Le iene in poi…), a volte un cameo (Franco Nero del Django corbucciano che compare in quello tarantiniano), ecc… La citazione è visiva (il ballo di 8 e ½ e quel caschetto con frangia della ballerina felliniana fanno un due-in-uno da veri intenditori!) ma anche verbale, specie e soprattutto in un cinema verboso e logorroico come quello di Tarantino (vogliamo parlare dei dialoghi de Le iene? E della disquisizione su Madonna e Like a Virgin?).
A volte la cogliamo immediatamente la citazione, a volte la intuiamo, a volte la riconosce l’inconscio per noi. Ma la citazione è efficace, sempre.
La salsa n.2 è il cliché; ancora dal dizionario Treccani:
cliché […] 2. fig. Espressione priva di originalità, spesso ripetuta, e perciò fastidiosa; frase fatta, stereotipata, abusata; concetto o giudizio ormai cristallizzato; comportamento, atteggiamento banale, scontato.
Una storia che si ripete è un cliché; uno stereotipo è un cliché; una dinamica psicoanalitica (freudiana, ovviamente… anzi no, lacaniana che fa più “postmoderno”) è un cliché. Il cliché è qualcosa che ci tocca tutti, ci colpisce e ci affonda, a volte. Tarantino lo sa che può affondarci tutti portando in scena un cliché, sviscerandolo per benino e ridicolizzandolo, improvvisamente e in poche battute, oppure tessendo trame come stillicidi, senza pietà per chi quel cliché lo afferma con viltà. Il massimo del cliché è essere nazisti (e anche fascisti) e Quentin non si frena: “Voi morirete, tutti! E voglio guardiate bene in faccia l’ebrea che vi ucciderà” (da Bastardi senza Gloria). Tarantino non mira al cuore, mira (metaforicamente, ovviamente) alla pancia, perché il cuore del poeta arriva diretto al cuore del suo spettatore, ma è alla pancia che arrivano le elucubrazioni mentali di uno dei più cerebrali autori del cinema contemporaneo. Azzardo: Tarantino è zero poesia, ma tanto spirito critico, vero e puro intelletto. Ed è con l’intelletto che decostruisce i cliché.
Un importante cliché del cinema di Tarantino è quello che ruota intorno alle questioni razziali, in particolare alla questione dei negri: negri-negri-negri-negri … (lo voglio ripetere anche io, “tarantinianamente”, le mille volte che hanno infastidito Spike Lee… sì, perché in questo caso la ripetizione nega e non afferma!). Ecco che allora ci serve lo spaghetti-western più anti-cliché della storia, Django Unchained, ma anche, aggiungendo una gloriosa decostruzione della visione stereotipata della donna, il sublime Jackie Brown. In uno degli incipit più memorabili, l’assistente di volo Pam Grier/Jackie ci appare sullo schermo insieme ai titoli di testa, riecheggiando l’ingresso in scena di Dustin Hoffman in Il laureato…. che citazione, che stile!
Eccoci quindi alla salsa n.3, lo stile:
stile […]2. a.Particolare modo dell’espressione letteraria, in quanto siano riconoscibili in essa aspetti costanti (nella maniera di porsi nei confronti della materia trattata, di esprimere il pensiero, nelle scelte lessicali, grammaticali e sintattiche, nell’articolazione del periodo, ecc.), caratteristici di un’epoca, di una tradizione, di un genere letterario, di un singolo autore (in questo senso, che è un uso fig. del sign. 1 a già documentato nel latino classico, anticam. le forme stile e stilo si alternavano indifferentemente, mentre nell’uso moderno si adopera esclusivam. stile): non si è mai per ancora veduto in alcun secolo, appo nazione alcuna, s. corrotto o barbaro e rozzo, e lingua pura o delicata, né viceversa, ma sempre e in ogni luogo la rozzezza, la purità, la perfezione, la decadenza, la corruttela della lingua e dello s. si sono trovate in compagnia (Leopardi); curare lo s.; ornamenti, infiorettature, preziosità di stile; esercizi di stile; un maestro di stile;[…]
Lo stile è un codice, un gusto, un registro, una serie di cose riconoscibili. L’ennesima ripetizione.
Ma in realtà questa volta si parla di ripetizione che non è a monte, ma alla fine del processo citazionista del cinema di Tarantino. In quanto a stile, il nostro è un regista propositivo e replicato, stavolta. E’ una macchina generatrice di icone.
Chi a Carnevale non si è mascherato da Uma Thurman_La sposa ? O non ha avuto almeno una cugina che lo ha fatto? (io la moglie di mio cugino… e che si senta pur citata, la mia Mariangela: un omaggio!).
Arrivo quindi al dunque e ammetto ai miei colleghi (che spero mi perdoneranno) di non aver trovato via meno pop per stilare una mia classifica dei 5 film di Tarantino, se non quella di individuare i migliori-costumi-che-sono-anche-i-migliori-stili di Tarantino e di “parafrasare” dietro a questi la mia classifica. Più che una cinquina una quintina, in senso musicale, per Quentin!
Procedo:
5. Django Unchained (2013)
Christoph Waltz/ dott. King Schultz indossa un cappello da urlo: una bombetta con tesa larga, un ibrido tra l’homburg grigio di Robert De Niro/ Michael Corleone e il bowler hat Chaplin/Charlot, ma anche di Stanlio e Ollio e dei drughi kubrickiani e pure qualcosa di “casa nostra”… Poi anche un completo grigio “a pennello”, come si suol dire, il panciotto a scacchi da cui sbuca la catena d’oro dell’orologio da taschino, un cravattino nero, poi lei… una mantella “supercalifragilistichespiralidosa” con balze bordate di grigio scuro a contrasto. Tutto grey, tutto top! Chapeau a Sharen Davis…. Ma forse un po’ troppo, non credo che fuori dalla vetrina e dalla scena potrei tollerare tanta roba assieme
4. Jacky Brown (1997)
Vi ho già detto dell’ingresso in scena di Pam/Jackie e qui mi soffermo sulla sua uniforme azzurra, un tailleur con giacca a un bottone e cucitura sotto al seno, ad esaltarne la prosperosità, gonna a vita alta e lunga al ginocchio, camicia bianca e foulard… femminilità allo stato puro! Toglierei gli stemmi della compagnia io e ci andrei subito alla prima riunione piena zeppa di “maschiacci libidinosi” vestiti black and white.
3. Kill Bill volume 1 (2003)
Come non tremare davanti alla pervasività di tutto quel solare giallo che attornia la musa Thurman nella sua mise, nel suo colore di capelli, nel suo giallo e flamboyant pick up? La divinità è vicina.
2. Pulp Fiction (1994)
Uma Thurman è la divina e iconica Mia Wallce, che in Pulp Fiction ha rilanciato il caschetto con frangia a trent’anni dalla Valentina di Crepax; la sua camicia bianca con colletto anni ’70, leggermente schiantata e portata fuori dai pantaloni, giacca attillata doppio petto in velluto nero, pantalone nero alla caviglia e infine, last but not least, il trench oversize color kaki. Poi i piedi nudi e lo smalto rosso porpora per mani e piedi, il rossetto rosso e lo sguardo fané… ah! lo sguardo di Mia…tutto stupendo, però (… lo ametto, sono una ex-fumatrice ….ndr) la sigaretta stona (si conceda solo a Marlene Dietrich e a Rita Hayworth!)… e anche il sangue al naso, no no no ! Non è quindi Mia la scelta top!
La scelta top di stile è lui: Quentin/Jimmy Dimmick, con quella “faccia un po’ così”, vestaglia da casa rossa con motivi geometrici, t-shirt con disegno (un ideogrammatico globo che sorride) e pantaloni del pigiama a righe con strani soggetti. Ecco gente: quello è lo stile dell’essere anti-ogni-stile che fa diventare cool il pigiama e l’ accostamento apparentemente casuale di cose di molto distanti per stile e colore… e con in mano una mug, altro che sigaretta! Sulle passerelle di Gucci e Dior quanti Jimmy hanno sfilato, ne avete idea? Tanti tanti.
1. Le iene (1992)
L’abito fa il monaco? O l’abito non deve rivelare nulla della nostra interiorità perché il colore di ognuno di noi non si giudica dall’apparenza? Per favore, la sposa è quella vestita di bianco gente! E il gangster è quello che indossa il completo scuro con cravattino e occhiale da sole, meglio se Ray Ban Wayfarer. Perché il rosso (del sangue) ci spicca e risalta al massimo su quel completo senz’anima… Perché possiamo pensare che dentro a quell’”uniforme” l’anima si colori di qualcosa di tremendamente romantico (le mogli dei gangster è lì che son cascate!). L’abito più diffuso e declinato senza essere mai smentito della storia dell’abito maschile, quello che va bene per tutto: per il matrimonio, per la festa del capo, per Carnevale addirittura (sono Mr. Pink!) per i costumi di un format televisivo… Insomma, quanto gli piace agli uomini omologarsi? Una risposta potrebbe essere che li aiuta a sentirsi “parte del tutto”, siano loro gli attori, i personaggi o gli spettatori…
Un abito che si presta all’enigmam insomma… e che prelude a diabolico dubbio finale: “Mr. Orange hai sparato tu a Eddie il Bello?”
Cannes 2019
Quentin Tarantino sarà in concorso a Cannes 2019 con “C’era una volta… a Hollywood”