Pedro, ¡Choca esos cinco! (batti cinque)
Scegliere solo cinque film di Pedro Almodóvar. Che ho fatto io per meritare questo?
Il regista manchego che tra pochi mesi compirà 70 anni è tornato a Cannes con Dolor y Gloria, film che sembra aver reso felici in molti, di nuovo. (Ecco come ne parla la nostra Marta, qui).
Scrivere anche poche righe su Almodóvar è davvero una bella sfida, lui che meriterebbe le parole più accurate del mondo e il tempo necessario per trovarle, colorate al punto giusto come omaggio ai suoi set: rosso almodóvar, blu almodóvar, giallo almodóvar, Pantone potrebbe ripensare alla palette che propone.
Regista degli eccessi e della nostalgia, della commozione mista a risate – ci si commuove ridendo – e dello sgranare gli occhi, regista che unisce il melodramma al grottesco, Pedro Almodóvar da sempre utilizza il suo cinema per “normalizzare” e naturalizzare quello che la società vede come anormale e innaturale, per rendere chiaro che è “human nature” quello che la morale comune disprezza inorridita.
Passeggiando per Madrid, il suo set cinematografico preferito, il Corte Inglés o supermercato a cielo aperto, mi è capitato più volte di trovarmi in una delle sue peliculas , di rivedere quell’abbigliamento a pois misto righe, di ascoltare dialoghi già sentiti nei suoi film. Non ci sarebbe Almodóvar senza Spagna. La realtà è davvero assurda e lui lo sa, pur amplificandola non inventa poi tanto. Quello che sa fare benissimo è innanzitutto osservarla e poi riproporcela a colori, con patterns, collage, assemblata e rimescolata come il suo genio gli suggerisce.
L’attenzione è soprattutto verso l’universo femminile che Almodóvar osserva da quando era un niño. Afferma in un’intervista: “non bisogna andare all’università e studiare per sapere come è una donna, basta semplicemente avere occhi, orecchie e un po’ di curiosità“.
Cresciuto con pochi soldi dalla mamma, nel dopoguerra spagnolo, nei suoi primi ricordi di infanzia è sempre circondato da donne. Ed è lì che si forma il suo cinema. A quattro anni Almodóvar prendeva nota di quello che succedeva intorno a lui. Lasciato spesso con le vicine, la sua quotidianità era ascoltarle: quello che dicevano apparteneva ad ogni genere, al melodramma, all’horror, alla commedia, al musical. Ingredienti di un gazpacho perfetto.
Donne – sull’orlo di una crisi di nervi – madri, chiesa perversa, Lgbt, dramma, eccesso, prostitute ed eroina, pedofilia e tacchi a spillo, carne tremula, Rossy De Palma, movida madrileña, suore col tamburello, tigri, cimiteri, cantanti punk, cinema, teatro, danza, amore, desiderio, morte, vita. Dei personaggi di “Almodóvar l’osservatore” e delle loro vicissitudini ci si innamora perdutamente. Quanto è affascinate l’umanità imperfetta dei suoi film, meravigliosa la vita che esplode nelle strade postfranchiste, toccante la fragilità delle anime che si oppongono agli urti della vita.
Ecco la mia cinquina, di cuore.
5 – L’Indiscreto Fascino del Peccato (Entre Tinieblas, 1983)
Sono una fan degli anni ’80, e ho un debole per quei suoi primi film così pulsanti, freschi e incredibilmente kitsch. Entre Tinieblas è pura genialità. Il titolo significa “tra le tenebre”, la traduzione italiana L’indiscreto fascino del peccato non era piaciuta ad Almodóvar, infastidito dalla parola peccato.
Siamo nel 1983, Almodóvar è giovane e per fortuna provocatore, e il film, massacrato da critica e distribuzione all’epoca per le tematiche affrontate, lo trasforma subito nell’enfant terrible del cinema spagnolo.
Yolanda, una cantante eroinomane, cerca rifugio in un convento di eccentriche suore, pie e desiderose di aiutare gli altri: per combattere il peccato bisogna conoscerlo, no? Suor Topa si fa di LSD, Suor Perduta ha come animale domestico una tigre, Suor Maltrattata Da Tutti scrive romanzi erotici, la Madre Superiora, lesbica e innamorata di Yolanda, sogna di diventare corriere della droga tra Spagna e Thailandia. Basterebbe questo a farci capire che è un film imperdibile, decisamente fuori da ogni schema e felicemente spiazzante. I toni del melodramma vengono smorzati da elementi comici, gag e clip musicali sono degne dei migliori anni ’80. Carmen Maura, idola indiscussa di gran parte della filmografia di Almodóvar, e idola mia, compare qui per la seconda volta, dopo l’esordio in Pepi, Luci, Bom (1980). Nel cast anche Julieta Serrano, Cristina Sánchez Pascual e Marisa Paredes.
La clip che amo, qui.
4 – Tutto su mia madre (Todo sobre mi madre, 1999)
«A Bette Davis, Gena Rowlands, Romy Schneider… A tutte le attrici che hanno fatto le attrici, a tutte le donne che recitano, agli uomini che recitano e si trasformano in donne, a tutte le persone che vogliono essere madri. A mia madre».
Omaggio al cinema, a John Cassavetes ed Eva contro Eva (All about Eve, nel titolo originale) e al teatro di Un tram chiamato desiderio, è IL FILM di Pedro Almodóvar, vincitore del premio per la migliore regia al 52º Festival di Cannes, e Oscar come miglior film straniero, quello che più di tutti ha segnato la sua carriera e dato splendidamente via al suo periodo più mélo. Le tematiche, i toni, il filtro dell’ironia, lo sguardo benevolo, le architetture dei significati sono quelle che ritroveremo ancora avanti.
Almodóvar si affida ad un grande cast e a volti segnati da lacrime, per raccontare un viaggio attraverso il dolore intrapreso da donne diverse tra loro, anime travagliate e impegnate in una battaglia tutta personale. Ad ogni passo di sceneggiatura e ad ogni incrocio corrisponde un nuovo incontro, un perdersi o un ritrovarsi, una svolta, una speranza per ricominciare. Manuela (Cecilia Roth) è una madre che ha perso un figlio, Agrado (Antonia San Juan) è una transessuale che vuole togliersi dalla strada, Rosa (Penelope Cruz) una suora incinta e sieropositiva, Lola (Toni Cantó) una transessuale col cuore divorato dall’HIV, da tanti errori e un figlio mai conosciuto, Huma (Marisa Paredes) un’attrice lacerata e innamorata della sua collega tossicodipendente Niña (Candela Peña). Ma quanta forza in quell’assenza di felicità.
Bello il monologo di Agrado sull’autenticità e l’accettazione (e bello il suo nome), emozionante l’arrivo a Barcellona di Manuela sulle note di Ismael Lô (Tabajone), alla fine di un tunnel con lo sguardo che plana sulla città di Gaudì. Il cuore di un figlio morto che continua a pulsare in un altro corpo nella Coruña è un dolore che Almodóvar ci sbatte in faccia, quasi letteralmente per una trovata registica: quel nuovo petto ci investe e il fade to black ricorda la camera di Hitchcock che si posava sulle giacche nere in Nodo alla gola. Solo attraversandolo il dolore possiamo davvero ricominciare. Tutto su mia madre si conclude con la vita che nasce, e come la vita è un’opera calda e intensa che è meglio maneggiare con cura.
3 – Parla con lei (Hable con ella, 2002)
“L’amore è la cosa più triste del mondo”.
Ho fatto fatica a trovare delle parole per questo film, per le emozioni che suscita che non so definire pienamente. Parla con lei è per molti il capolavoro di Almodóvar assieme a Tutto su mia madre, film che metterei allo stesso tavolo per una cena di gala, parlano la stessa lingua, toccano corde profondissime.
Siamo sempre più lontani dallo stile del giovane Almodóvar. L’opera si apre sulla danza-teatro di Pina Bausch, teatro della vita, e su corpi che si lasciano cadere a terra, stanchi e appesantiti da forze invisibili che li spingono verso il basso. Forze come eventi dolorosi, difficili da comprendere. Questa volta protagonisti sono uomini che diventano amici per dividersi uno stesso carico di dolore, assistere due donne in coma. Marco (Darío Grandinetti) e Benigno (Javier Cámara) sono solitudini che amano e aspettano un risveglio, uomini sensibili, che Almodóvar sembra voler suonare come strumenti musicali in chiave femminile. Nei gesti amorevoli di Benigno e nelle sue parole ritroviamo tutto l’amore del regista spagnolo per le donne: “gli uomini devono parlare con le donne, accarezzarle, ricordare loro che esistono, che sono vive, farle sentire importanti.” È un film vero e complesso, nostalgico e sensuale, tragico e normale, come normale è la tragicità della vita.
Parla con lei si chiude come si era aperto, con Pina Bausch (e le due famose coreografie Café Muller e Masurca Fogo), “l’artista che ha segnato una nuova via originale all’espressione scenica del corpo danzante e parlante” – i corpi appunto. È circolare proprio come la vita, una ruota che gira, ancora una volta quando tutto sembra finire in realtà ricomincia da capo. L’ho scelto perché è indimenticabile, perché è arte, perché racconta di amicizia e solitudine, per Caetano Veloso e il sublime film muto, perché nonostante tutto “bisogna credere ai miracoli, altrimenti potrebbe capitarne uno, e non ce ne accorgeremmo”.
2 – Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988)
L’Almodóvar che preferisco ha il sapore di una commedia, una splendente Carmen Maura, questi colori – esattamente questi – la leggerezza, una trama demenziale, il mambo taxi, Madrid.
Il regista ha definito Donne sull’orlo di una crisi di nervi “una commedia sofisticata, molto sentimentale. Qualunque stramberia appare verosimile se implica dei sentimenti. L’emozione sentimentale è sempre il miglior veicolo per raccontare qualunque storia. E l’allegria, ovviamente, lo stavo dimenticando. Perché da una commedia, di qualunque tipo essa sia, deve traspirare allegria“. Eccome se traspare!
Il film si apre con i titoli di testa sulle note di Soy infeliz, interpretata da Lola Beltrán, e ad essere infelice è Pepa Marcos (Carmen Maura), una doppiatrice che soffre per amore (raramente in Almódovar si è felici in amore hic et nunc, forse un tempo, forse poi): la sua relazione con Ivan è ormai finita e tra sonniferi, svenimenti e visite dal medico capiamo che è sull’orlo di una crisi di nervi, oltre che incinta. Il film parte in quarta non appena Pepa decide di smettere di essere buona e dà fuoco alla camera da letto.
La trama è complicata da raccontare, ho mal di testa solo a pensarci, e man mano sempre più assurda, la storia si svolge lungo l’arco di una giornata con personaggi d’ogni tipo ritagliati da coincidenze e incollati su casualità. Un’amica di Pepa in cerca d’aiuto, una coppia di tonti poliziotti che indagano su terroristi sciiti, il timido figlio di Ivan (un giovanissimo Antonio Banderas) con la fidanzata Marissa (Rossy de Palma) e Lucía (Julieta Serrano) la moglie di Ivan. Quest’ultima altrettanto superlativa, è spesso incorniciata da bigodini, ha i capelli paralleli al vento, si stacca dalla carta da parati gusto amarena e pistacchio, ha una pistola in una mano e il gazpacho nell’altra. Le interazioni tra le due donne a colpi di guardaroba e inquadrature sono più avvincenti dell’Italia ai rigori, in finale contro la Francia (mondiali, no europei).
In Donne sull’orlo di una crisi di nervi ci sono un sacco di telefoni (sembrerebbe quella di Almodóvar “una feroce critica contro il telefono e la segreteria telefonica”, se è vero sì, fa ridere), righe e pois, e non si vede l’ora di arrivare alla scena successiva, al personaggio successivo, al dialogo successivo, alla composizione cromatica che viene dopo. È un piacere per gli occhi, una pinterest board, una ventata di allegria, un trionfo del rosso (telefoni, vasi, vestiti, fiori, vassoi, riviste, pomodori, smalto…quando andrò in pensione conterò tutti gli oggetti rossi presenti, oltre Rossy de Palma), un trionfo tutto.
La quintessenza di Almodóvar, se dovessi pensare alla foto di gruppo del suo cinema sceglierei le donne sull’orlo di una crisi di nervi e tutti gli altri personaggi del film, tasselli fondamentali di questo amabile manicomio, su quell’attico vista Madrid.
Gazpacho para todos e pistolettate.
Volver è il film che metto in cima a questa sofferta classifica. Oltre ad essere un’altra opera eccelsa, a differenza di altri “almodrami” fatti di perdite terribili e privazioni (la perdita di un figlio in Tutto su mia Madre, la perdita di una donna amata o dell’uso del corpo in Parla con lei) sostituisce l’assenza con la presenza, raccontando un ritorno, quello di una madre creduta morta in un incendio. Un film fatto di più anziché di meno.
Ci sono poi altri ritorni che fanno piacere, uno su tutti quello di Carmen Maura che mancava da un po’ nel cinema di Almódovar, quello di Penelope Cruz dopo Tutto su mia madre, quello dello stesso regista spagnolo nella sua terra, la Mancha, con il vento “solano” che accende la pazzia nelle persone e gli incendi nelle strade.
L’affresco tutto al femminile, forse tra i più belli che il cinema abbia mai partorito, è composto da tre generazioni. Raimunda (Penelope Cruz) e sua sorella Sole (Lola Dueñas), orfane e molto diverse tra loro, la figlia di Raimunda, Paula (Yohana Cobo), Agustina (Blanca Portillo) la vicina di casa, e zia Paula (Chus Lampreave) l’anziana zia con il breve ma importante ruolo di avvisarci dell’arrivo di Irene (Carmen Maura), la madre di Paula e Sole che ritorna dall’aldilà per chiedere perdono.
Le donne di Volver sono “bellissime“ madri, proprio come Anna Magnani nel film di Visconti, che appare verso la fine come ennesimo atto d’amore verso il cinema. Ma anche bellissime figlie, sorelle, amiche, complici: donne che ce la fanno, si perdonano e si sorreggono, capaci insieme di superare i traumi e i dolori che gli uomini arrecano loro.
Ancora una volta ci si meraviglia di come Almodóvar conosca bene le donne e sappia leggere nella loro anima. Sa di cosa parlano, di cosa potrebbero parlare, al cimitero, in paese, dal parrucchiere, a tavola. Negli occhi di Raimunda/Penelope color nero bagnato, che non piangono mai realmente e costantemente in uno stato di “sentire“, c’è tutto il cinema di Almodóvar.
Volver è il film che metto in cima alla classifica, perché tornare è una parola che amo, perché commuove, perché ha il finale che ha.
Ritrovare una madre creduta morta, poterla riabbracciare, poterci parlare di nuovo, “ho così tante cose da dirti mamma…ora abbiamo tempo“, e non volersene separare neanche un minuto per paura di riperderla. Carmen Maura e Penelope Cruz su quell’uscio mentre si abbracciano e salutano, per rivedersi dopo poco a telecamere spente, sono qualcosa di cui essere grati. Almodóvar immaginava come potesse essere riavere del tempo con sua madre e senza forzature ci porta a quel pensiero, prima o poi di tutti.
“I fantasmi non piangono”, è bellissimo tornare per chi è rimasto.
Dedico la cinquina ai miei amici Riccardo e Daniela, con cui ho condiviso cielo e strade madrileñi.
E un saluto a tutti i film che non ho citato e ai personaggi tralasciati, non per questo siete meno importanti.