Oro Verde. C’era una volta in Colombia, tra Márquez e il western.

 

Quando è ormai sulla bocca di tutti come una delle più importanti opere del Novecento, “Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez, sia per la prima volta vicina ad un adattamento cinematografico (si tratterà di una serie tv in lingua spagnola prodotta da Netflix), nelle sale esce il film Oro verde. C’era una volta in Colombia dei registi Ciro Guerra e Cristina Callego, vincitore del premio della critica a Cannes lo scorso anno. È stata una didascalia presente sulla locandina del film, il cui titolo originale è Birds of Passage con riferimento alle migrazioni di uccelli e nomadi, a farmi entrare in sala, a passo svelto e deciso: “Dopo cent’anni di solitudine, un colpo al cuore”.

oro verde

E in effetti il legame tra i personaggi del mondo magico di Marquez e il clan indigeno Wayuu, che tra gli anni settanta e gli anni ottanta del Novecento si lasciò travolgere (e frammentare) dal fenomeno della “bonanza marimbera”, il narcotraffico diretto verso gli Stati Uniti, è evidente. Non siamo a Macondo, ma nel deserto di La Guajira, a nord della Colombia; la famiglia non è quella che prende avvio da José Arcadio e Ursula Iguarán, bensì la famiglia Pushainas del clan Wayuu guidato da una capoclan, Ursula (che sia un caso?), la quale, fin dalle prime battute sottolinea il suo ruolo di imperitura memoria all’interno della famiglia: “Sono capace di tutto per il mio clan. Questo è il nostro talismano”.

Anche qui, come a Macondo, le cose sembrano avere un’anima e godere di vita propria, come fossero personaggi dai taumaturgici e oracolari poteri.  Anche qui, “non si è di nessun posto finché non si ha un morto sottoterra” e“la morte segue ovunque, annusando i pantaloni, senza decidersi a dare la zampata finale” .

oro verde

Nel deserto dei Wayuu le tombe vengono profanate affinché le ossa di quei morti che appaiono continuamente in sogno per decifrare e anticipare sventure o gioie, possano irrobustire gli scheletri deboli dei vivi. Non solo le ossa riempiono le tombe e rendeno forti coloro che sono rimasti, nei tumuli vengono abilmente nascoste anche le armi e quando la violenza si erge a divinità, suggerendo, al pari dei morti, un futuro possibile; quando si inizia a vivere nella convinzione che a un passo dalle proprie tende ci sia un intero mondo da scoprire, non il mondo magico e laborioso di Melquíades, ma quello costruito sulla ricchezza e gli agi, la prepotenza e l’ingordigia, ogni cosa cambia. Raphayet, pretendente e poi sposo della figlia di Ursula, comprende le potenzialità dell’oro verde – la marijuana – che cresce abbondantemente nella terra che li accoglie e dà avvio, suo malgrado, a un lento e progressivo disfacimento del clan di Ursula e degli altri due clan coinvolti; suo malgrado perché a dettare legge, in quella comunità dichiaratamente matriarcale, è proprio Ursula. Sarà lei a vedere nell’oro verde il riflesso di un potere nuovo, moderno, luccicante all’esterno ma opaco nelle conseguenze, a dare una forma diversa alle tradizioni e alle tende che si trasformeranno presto in case lussuriose e solitarie, enormi navi bianche nel deserto.

Se la Ursula di Marquez riesce ad anticipare le velleità febbrili e inutili degli uomini di Macondo salvandoli dalla rovina, la Ursula di Ciro Guerra e Cristina Callego , invece, fa esattamente il contrario: innesca e favorisce una lotta intestina tra i tre clan de La Guajira che, diversamente da quello a cui le pellicole americane sui narcotrafficanti ci hanno abituati negli ultimi anni,  coinvolge solo in modo marginale l’America, per divenire faida interna di una comunità vicina alla sparizione. I suoi riti tribali, l’importanza della sua parola (e di chi – di essa – si fa portavoce), la sua memoria, il suo passato che si riallaccia ineluttabilmente al presente e al futuro, il tempo circolare in cui la dimensione onirica si fonde con la realtà, come sabbia che accarezza le gambe e vela lo sguardo, tutto questo rischia di evaporare a contatto con le ambizioni violente della modernità. A raccontare la storia dei tre clan è un cantore, una sorta di aedo che ci accompagna per cinque lunghi canti, in un viaggio nel deserto affascinante e spaventoso, tra western e realismo magico. Bellissimo.

/// il trailer ///

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