Cape Town. Un filmmaker fa visita ad un octopuss per 324 giorni. La storia di un’amicizia che commuove e ci avvicina – anche a Netflix.
Se non avete ancora visto My Octopus Teacher, fermatevi qui. Andate a pescarlo, è su Netflix. Immergetevi nelle foreste d’alghe, e poi tornate a respirare in superficie. Ma sentirete subito una forte nostalgia di quel mondo e capirete che forse, l’ossigeno di cui abbiamo bisogno è proprio laggiù. Fatto? Ecco, ora continuiamo.
Lodato da David Attenborough, diretto da Pippa Ehrlich e James Reed, lo scorso 26 aprile si è portato a casa l’Oscar come Miglior Documentario. Ne avevo sentito parlare pochi giorni prima come una delle poche cose buone su Netflix, e mi sono fidata. Ancora forse poco conosciuto, My Octopus Teacher è un film di rara bellezza e intensità, che resta nel cuore e nella testa.
“Era difficile credere a quello che leggevamo“.
Pippa Ehrlich giornalista e regista di talento, ammette di aver fatto un bel salto sulla sedia dopo aver letto la prima volta la sceneggiatura del film che le era stata inviata da Craig Foster, produttore e co-protagonista di questa straordinaria storia.
Più che un documentario sulla natura, potrebbe sembrare un film a tutti gli effetti, fictional drammatico, un po’ sci-fi e con due attori eccezionali, se non fosse che quello che mostra è la magnifica realtà. Coinvolgente, intimo, con riprese che tolgono il fiato.
La storia si sviluppa attorno al già citato filmmaker naturalista Craig Foster, che ha vissuto e documentato personalmente la vicenda e che, ad un certo punto, decide di voler trasformare tutto quel di footage in un film. Come spesso accade, dalle crisi più profonde arrivano per noi le più grandi opportunità di rinascita, e questa è solo una delle tante verità che il film ci insegna.
Anni prima, durante le riprese del suo documentario The Great Dance: A Hunter’s Story (2002), che raccontava l’arte della caccia dei Boscimani del deserto del Kalahari, Craig ha un sorta di esaurimento, fisico ed emotivo, dovuto a ritmi massacranti e una pressione costante sul set. L’esperienza lo segna e affascina allo stesso tempo “loro erano completamente dentro la natura, e io, completamente fuori” dice. Ma nonostante avesse appreso moltissimo da “coloro che seguono la luce”, cacciatori che parlano con le mani e che hanno imparato a leggere i segni invisibili degli animali, parla di due anni terribili, nei quali abbandona la telecamera e si chiude in una crisi esistenziale, orfano di ogni motivazione.
È necessario un cambio radicale, racconta nel film. L’esperienza formativa con i Bushmen of the Kalahari o San e una necessità di riconnettersi alla sua vera essenza, risvegliano in lui il bisogno di un contatto profondo con la natura. Una persona con una sensibilità fuori dal comune, capisce può ritrovare una sua identità avvicinandosi – ma sarebbe più corretto dire fondendosi – alla natura. Sceglie l’oceano di False Bay, vicino Cape Town, e le suggestive foreste di alghe (kelps).
Non usa mute per proteggere il suo corpo. È la sua pelle ad essere a contatto con ogni forma vivente, con l’acqua gelida che all’inizio spaventa. Non usa bombole, è il suo respiro allenato a tenerlo sotto finché può. Craig vuole diventare parte di quell’ecosistema, sciogliere ogni barriera tra la sua anima e quel mondo così misterioso quanto esotico. Una sorta di pianeta extraterrestre in cui, dice Craig, sembra di volare. In cui non c’è posto per preoccupazioni terrene, qui ci sono altri codici, nuovi pensieri. Ha la sua telecamera ora con sé, e piano piano torna a provare interesse per ciò che vede attorno, riprende a filmare ogni cosa, pesci, squali pigiama, meduse eleganti, esseri strambi, castelli di conchiglie… hey castelli di conchiglie? Ma cosa sarà questo strambo Castello Errante di Howl in versione sottomarina?
“Molte persone dicono che un polpo è come un alieno – racconta Foster all’inizio del documentario – Ma la cosa strana è che, man mano che ti avvicini a loro, ti rendi conto che sei molto simile a lui, in molti modi. Stai entrando in questo mondo completamente diverso, una sensazione così incredibile, e ti senti come se fossi a un passo da qualcosa di straordinario”.
L’incontro tra Craig e l’octopus vulgaris, un comunissimo octopus – che è una lei, aspetto rilevante nel film – ha qualcosa di surreale. Di certo non fa il suo ingresso senza lasciare il segno, c’è qualcosa di speciale in questa creatura nascosta dentro un accrocchio di conchiglie, o un tendone del circo fai da te. C’è qualcosa, secondo Craig, da imparare. “Che succede se non perdo un giorno?” Si chiede dopo averlo visto sfilarsi il “vestito” di dosso e fuggire via. Craig torna a trovarlo 324 volte, tutte documentate, per conoscerlo e svelarne il mistero, praticamente per tutta la durata della vita che resta da vivere all’octopus. Non ci credo, ho pensato, mentre la mia ammirazione cresceva a dismisura. Un animale speciale, ma anche un essere umano speciale. L’amicizia si costruisce ogni giorno e questa costanza, l’attenzione per ogni sfumatura, la cura, il rispetto degli spazi, il muoversi delicatamente, fanno sì che l’octopus abbandoni piano piano la tana e la paura, per unirsi a Craig in una danza affettuosa e per condurlo nel suo mondo, totalmente.
Ps. Non è una fiaba.
È l’inizio dell’amicizia più straordinaria che io abbia mai visto. Straordinaria anche solo da immaginare. E non importa che alcuni animalisti abbiano criticato la troppa umanizzazione dell’animale, che resta pur sempre un “selvaggio” e di cui non si dovrebbe dare un’idea di interazione così stretta.
Non vorrei descrivere i momenti del loro primo incontro (sento ancora quelle ventose sulle mie dita), la loro bellezza è affidata a immagini potenti e alle parole di Craig, che costantemente ci guidano durante la visione.
Impariamo tutti dall’octopus, che non ha nome e che non diventerà mai un pet da compagnia. Agli occhi di chi guarda e sente attraverso l’epidermide di Foster, è una creatura quasi divina. Un octopus è una lumaca che ha perso la casa. Quando nasce è disperso, un puntino solo e minuscolo, senza madre o padre ad indicargli la via. Ho pensato al dado che si scioglie nell’acqua bollente, dove la pentola è l’oceano. Pochissimi sopravvivono e per farlo devono essere pensatori veloci, mattatori camaleontici.
Un Octopus ha 2/3 della sua intelligenza nei tentacoli, 8 braccia e 2000 ventose (dita), con le quali annusa, scopre, assaggia, forse addirittura pensa. Ha una pelle che cambia colore e si mimetizza con qualcunque cosa gli capiti a tiro, nonostante veda in bianco e nero. (Ma allora come fa se non vede i colori a mimetizzarsi?). Che meraviglioso mistero, l’intelligenza dell’octopus. L’animale che instaura legami duraturi e pianifica strategie di fuga in un batter d’occhio. La vita dell’oceano è davvero pericolosa e per cavarsela bisogna diventare maestri di trasvestimenti, all’occorrenza tirare fuori due gambe e camminare con passo svelto, diventare una vecchia signora che va a fare la spesa con grazia, improvvisarsi scaltri cowboy nelle situazioni di pericolo, avvolgersi nelle alghe come se fossero coperte e spiare il mondo con occhi curiosi e spaventati, sperando di non essere visti.
Craig si arricchisce ogni giorno, è legato a questa creatura da un sentimento nobile. Guardare negli occhi un animale selvatico ed essersi guadagnato la sua fiducia lo inebria, inizia a pensare come un octopus, studia, si documenta, si ricorda dei Boscimani che coglievano il più piccolo segnale per decifrare il linguaggio della natura. Riconosce nella difficoltà che ha l’animale di uscire da una crisi, la sua stessa difficoltà. Nella sua rinascita, vede la sua stessa rinascita. E noi impariamo molto anche da Craig: l’assenza di barriere/indumenti e l’aver saputo mettere a nudo le sue fragilità lo hanno portato laddove nessun altro è mai riuscito ad arrivare.
La vita di un octopus è di circa un anno: per la prima volta si è in possesso dell’80% dell’esistenza di un animale selvatico, documentata, giorno dopo giorno. Nel film c’è quella cosa chiamata montaggio e vediamo solo le cose funzionali alla storia, ma immaginiamo a livello scientifico quanto questo materiale possa essere importante. È qualcosa di incredibile.
Non solo scienza però. Le emozioni sono forti e sono tante. A tratti arrivano lacrime di vera commozione, liberatorie. Bisogna che esca da qualche parte tutta questa commozione. Le chiamerei lacrime d’amore, diverse da quelle che ci fanno versare nei finali tristi o nei drammoni pieni di ingiustizie. Lacrime che nascono dall’essere sopraffatti da qualcosa a cui non si riesce a credere tanto è raro e profondo. E che riguarda tutti noi. Questo film può muovere qualcosa davvero? Può farci comprendere come non siamo semplici turisti su questo pianeta ma ne siamo parte? Che siamo profondamente connessi con la natura e che ogni forma vivente, anche la più piccola, apparentemente insignificante, è importante? Che solo nella natura ci sentiamo completi, connessi, presenti e che senza di essa non esistiamo davvero? Forse, e non penso sia un caso, si è voluto dare così tanto risalto all’aspetto emotivo, perché è proprio andando a toccare le emozioni che si può innescare un cambiamento, che avviene prima di tutto dentro di noi.
Le musiche di Kevin Smuts sono suggestive, sposano alla perfezione gli umori del film e accompagnano i nostri. Si passa dalla leggerezza ai toni tragici, perché c’è anche spazio per un destino a cui nessuno può sottrarsi. Ma quello che resta è una danza, meravigliosa.
Craig ha ritrovato se stesso e nuovi stimoli grazie allo sguardo di/verso un animale selvatico, nelle foreste marine di Cape Town. L’octopus maestro gli ha insegnato a vivere e chissà cosa ha imparato a sua volta. Noi accogliamo la gentilezza e la cura, ci ricordiamo che certi momenti sono preziosi e intensi proprio perché brevi e inaspettati e che solo nella natura possiamo davvero ricostruire noi stessi. Non ci sono barriere, siamo tutti connessi e questo film è un dono.
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Craig Foster e Pippa Ehrlich fanno parte del Sea Change Project, una comunità di filmmaker, scienziati, giornalisti la cui missione è quella di favorire decisioni politiche e scelte individuali per proteggere gli oceani e le foreste marine del Sud Africa.