Miserere è il titolo italiano di Oiktòs (compassione), seconda pellicola del greco Babis Makridis (classe 1970). Il film, del 2018, è in Italia solo da qualche settimana e nelle sale per palati cinefili resistenti, in lingua originale con sottotitoli.
Una persiana automatica si alza sul nuovo giorno. Fuori dalla finestra il mare, calmo e scintillante sotto il sole. Dalla quiete si sollevano i singhiozzi di un pianto e l’inquadratura si sposta dentro l’appartamento vista mare, dove un uomo, seduto ai piedi di un letto matrimoniale, disfatto da un solo lato e illuminato dalla luce della finestra, piange, anzi si sforza di piangere, finge di piangere.
Stacco. Su sfondo nero un testo in greco, letto (in lingua originale con sottotitoli) dalla voce del protagonista, come proveniente dalle profondità della sua coscienza, da una dimensione oscura e irrappresentabile.
Stacco. L’uomo, in piedi davanti al portone della sua casa, dentro al suo abito grigio e da dentro al suo borghese e luminoso appartamento, attende che qualcuno suoni il campanello; quando quel qualcuno suona, l’uomo guarda l’orologio e conta un certo tempo prima di andare ad aprire. È la vicina, che ha portato una torta appena sfornata per lui e suo figlio. La loro moglie e madre è in coma e tutti sono gentili e si interessano.
Queste tre scene aprono le danze, ma la partitura di Miserere è scandita per intero da cambi di scena che si muovono in queste tre dimensioni: il contesto ambientale esterno, in contrasto o comunque in dialogo con i moti interni del protagonista (A), la dimensione intima del soggetto che si legge senza immagini sullo sfondo nero (B), l’azione non-azione del protagonista, spesso congelato nei suoi movimenti come nelle sue espressioni, statico anche quando gioca a beach ping-pong (C).
In questo schema A-B-C, in alternanza quasi rimica, ogni passaggio è accompagnato dalla presenza in scena di una finestra: filtro tra esterno e interno, ovviamente metaforico, attraverso cui tendere come una freccia il pathos dello spettatore.
La finestra è sempre stata un topos molto speciale in pittura: la cornice che delimita la scena osservata o che ne sottolinea un dettaglio o che, di sfondo, contestualizza l’azione, ma anche un confine che oltrepassa il lecito (la finestra del voyeur), un affaccio aperto o ambiguo su qualcosa, una fonte di luce sulla scena. Di certo un escamotage di relazione tra le parti in gioco, tra osservatore e scena, tra visibile e celato, tra luogo dell’immaginazione e realtà. E Makrdis rivela di conoscere bene la storia dell’arte e la fotografia, così come la metrica classica e il teatro greco, attuando la dimensione totalizzante della settima arte: summa di tutte le arti, ballo corale delle Muse, divinità (femminili) greche, appunto, che si tengono per mano e danzano da pari. Ma poi la Grecia, proprio per il cinema, ha inventato anche lo Sirtaki (tipicamente maschile), dove il tema sempre uguale si anima quando, a turno, uno dei ballerini si stacca dalla fila e interpreta la coreografia in solitaria, davanti agli altri. Ecco, Miserere è come una danza corale, dove a turno vanno al centro la trama, la fotografia, il montaggio, la recitazione, la colonna sonora… Great job Makridis!
Miserere è anche un film che omaggia il cinema e arriva nelle nostre sale proprio in un anno, il 2019, in cui molti autori, ciascuno a proprio modo, si sono prodigati in questo con le loro ultime pellicole: Almodovar con “Dolor y Gloria”, l’autoreferenziale Tarantino con “C’era una volta …a Hollywood”, Kore-eda con “Le verità”. Ma Makridis lo fa in una maniera molto sottile e forse più efficace, perché richiama in modo diretto la finzione e al contempo la potenza empatica del medium, perché il cinema, prima di tutto, è qualcosa che nel suo movimento è l’animo dello spettatore che vuole muovere.
Durante una partita a carte, il protagonista racconta per intero la trama de “Il campione” (Zeffirelli, 1979), film “strappalacrime” che ha guardato, fondamentalmente, con invidia: “il pianto del bambino sembrava vero”, racconta, e come vorrebbe piangere così anche lui… questo sembra volerci confessare.
Ma veniamo alla storia. Yannis Drakopoulos (1972) interpreta un avvocato di successo che indossa sempre abiti di rappresentanza e occhiali cosiddetti “browline” (con la parte superiore in celluloide e la parte inferiore in metallo), ovvero quelli che hanno reso celebre Michael Douglas in “Un giorno di ordinaria follia”.
Il suo lavoro è indagare e far punire gli assassini di atrocità consumate.
Il suo dramma personale è invece un dramma incompleto e sospeso: sua moglie è in coma. Suo figlio adolescente non parla mai quando è in scena, non hanno mai un vero contatto. Così come non ne hanno lui e il padre, vedovo, con cui spesso gioca a carte ma che, quando lo raggiunge alla sua villa sul mare per confidarsi, resta a guardare il mare lasciando le spalle al figlio. Forse è da lui che avrebbe sempre voluto un abbraccio e con lui avrebbe voluto e dovuto piangere la morte della madre. Ma non ci è dato sapere del suo passato, perché non è un film psicologico, Miserere è una cosiddetta dramedy (comedy + drama), dove il sorriso che si accenna per l’humor nero destinata al protagonista è controbilanciato dal sospetto di essere, in fondo, non dissimili da lui e dove la rabbia per quel che accade si rivela come proiezione di qualcosa su cui saremmo noi a dover indagare.
Miserere è una pellicola perfetta ma controversa, che può essere vissuta e letta su due diversi piani:quello della pancia, cui sferza numerosi rovesci e quello della testa, da cui si può godere a piene mani, perché si riconosce un percorso narrativo basato su immagini molto raffinate e colte, su brani musicali scelti dal repertorio classico e perfetti ad alzare la tensione, su un ritmo molto ben scandito e su un meraviglioso braccetto di tutti questi elementi, in un climax di follia nell’esistenza di un singolo, che è però specchio di piccole, intime e inconfessabili follie di tutti gli spettatori.
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