“Maledette queste mani, maledetto il tempo che passa, maledetta la mia solitudine, maledetto tu marmo, che non rimanga niente di quello che ho fatto perché quello che ho fatto non è stato abbastanza. Maledetto me, che ho voluto farmi simile a Dio provando a dare la vita, invece di vivere compiutamente la mia”.
In sala per pochissimi giorni, dal 27 settembre al 3 ottobre, Michelangelo Infinito è il docu-fiction di Emanuele Imbucci che ci mostra un intenso ritratto del grande artista e visionario Michelangelo Buonarroti, colui che “trovava conforto solo nello scolpire”, nella forma ibrida di documentario e fiction, definita punto d’arrivo nel dialogo tra cinema e arte.
Un’operazione di grande valore, fedele, rispettosa, mai didascalica. Avvolgente, sensuale, spirituale, sorprendente. Complessa come la figura di Michelangelo, i cui tratti di inquietudine mista ad ambizione e sfida con se stesso e con gli altri, emergono non solo dalle sue parole ma anche da quei corpi scolpiti e dipinti, contorti, rassegnati o accigliati, energici, spesso sul punto di scattare, di alzarsi, di lanciare una pietra.
La tensione emotiva pare come scolpita anch’essa in circa 1 ora e 30 di film in cui nulla è inventato: Giorgio Vasari parla attraverso una parafrasi de “Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori”, mentre i monologhi di Michelangelo sono ripresi dalle sue stesse “Lettere e Rime” e da testimonianze di biografi contemporanei.
Il film è strutturato secondo un’alternanza di voci, un coro che come in un’orchestra compone il racconto e svela le opere, i talenti e la solitudine di una delle figure più geniali mai vissute. Quella del Vasari ci fornisce un quadro storico e non si risparmia in complimenti, quella di Michelangelo ci affida la sua tensione perenne verso la perfezione, infine quella di un critico onnisciente analizza gli aspetti più significativi, poetici e rivoluzionari delle opere prese in esame.
Due sono i personaggi che animano le scene, la figura di Giorgio Vasari (Ivano Marescotti) pittore, architetto e scrittore, che il regista colloca in un luogo che ricorda la forma di una biblioteca, dai colori caldi e rassicuranti, e quella di Michelangelo Buonarroti, (un ispirato Enrico Lo Verso) che parla e si confessa nelle cave del marmo di Carrara, luogo freddo, ruvido, spigoloso. Due ambienti che rispecchiano i diversi stati d’animo dei personaggi, l’ammirazione da una parte, l’irrequietezza dall’altra
Ma sono le opere le vere protagoniste del film, capolavori senza tempo di cui non sapremo mai abbastanza. Dalla Pietà al David, dal Bacco alla Tomba di Giulio II con il folgorante Mosè, dalla cupola di San Pietro agli affreschi della Cappella Sistina di cui il Vasari scrisse:
“…la quale opera è stata veramente lucerna che ha fatto tanto giovamento e lume all’arte della pittura, che ha bastato a illuminare il mondo per tante centinaia d’anni in tenebre stato“.
Grazie alle straordinarie riprese in ultra definizione 4K HDR arriviamo vicinissimi ai volti e alle torsioni dei corpi, ai nervi tesi, al bellissimo Gesù del Giudizio Universale, col potente braccio alzato, pronto a giudicare i vivi e i morti e immerso nel blu lapislazzuli “tanto caro a Giotto”.
La musica di Matteo Curallo è un’altra arma vincente ed enfatizza l’impatto emotivo che quelle opere suscitano: cresce quando la telecamera si sofferma sui dettagli, si rasserena sui beati per poi ripartire insistente tra i dannati, a volte si odono delle grida lontane. Forse il momento di maggior pathos, in cui il bellissimo lavoro di squadra di musica, immagine e voce narrante, raggiunge davvero il sublime, lo si ha proprio nello svelamento della Cappella Sistina, e poi in quello dell’immenso e a quei tempi ritenuto osceno, Giudizio Universale.
Nella sala dove ero, mai priva di brusii e inutili commenti del pubblico, in quel momento e solo in quel preciso momento, è sceso un silenzio sacro, rispettoso. Come se lì davvero tutti ci fossimo davvero resi conto di cosa fosse stato capace Michelangelo.
Non possiamo non sentire vibrare qualcosa dentro quando, nella descrizione dell’affresco La Creazione di Adamo, la voce fuori campo afferma: “Le mani tese l’una verso l’altra senza mai potersi davvero toccare è un gesto che rivela tutta la tensione dell’uomo ad arrivare a Dio, ed è come se Michelangelo cercasse in quell’infinitesimale spazio che intercorre tra i due indici tutta la ragione della sua arte, l’incolmabile scarto tra il divino e l’umano”.
C’è un piccolo riferimento al suo innamoramento verso il giovane nobile Tommaso de’ Cavalieri, alla stanza segreta nelle Cappelle medicee di Firenze, poi il finale è tutto dedicato al non finito, fase conclusiva di un travaglio creativo durato tutta una vita.
Michelangelo invecchia in un corpo malato e le figure fuoriescono dal marmo che rimane esposto e grezzo, incapace di parlare, di essere chiaro come un tempo. La Pietà Rondanini è l’ultima sua struggente opera scultorea, il marmo è come ferito e lacerato: non ci sono più i corpi levigati, perfetti in ogni minimo dettaglio, delle sue prime creazioni, “adesso invece colpivo, mutilavo, levavo marmo, disperando che la pietra si facesse a tratti muta non riuscivo più a togliere non potevo aggiungere non potevo più finire” scrisse.
Il merito del film di Emanuele Imbucci è anche quello di avere dato voce – mi piace usare forma – agli aspetti più misteriosi e affascinanti dell’uomo Michelangelo. Un uomo alla continua ricerca di qualcosa – che si chiami Dio, bellezza o perfezione poco importa – capace sia di dare vita alla pietra sia di imprigionare la vita nella pietra.
Usciamo dalla sala modellati da quei colpi finali, come se Michelangelo avesse lavorato anche noi con il suo trapano ad arco, come fossimo blocchi di marmo bianco pronti a riprendere vita, sopraffatti dalla bellezza e dalla profondità di certe visioni.
“Sforzatevi di imitare Michelangelo in tutte le cose, dove egli ha posto la sua divina mano, ha resuscitato ogni cosa donandone eternissima vita“.
Appunto, l’infinito.