Lovers Film Festival. I primi film, tra Inghilterra e Israele.

Per noi di Fuori di cinema il Lovers Film Festival si apre con tre pellicole.
Postcards from London dell’inglese Steve McLean, il film inaugurale su una musa al maschile e su una visione tutta nuova della sindrome di Stendhal, che sottrae i sensi per regalare il corpo spettatore all’arte, trasformandolo in corpo dipinto. “Se la percepisci così intensamente allora sei degno di farne parte”, sembra dire il regista, con il volto gentile e l’aspetto scultoreo di Harris Dickinson nei panni del giovane Jim, appena trasferitosi a Londra in cerca di fortuna, letteralmente abusato e fatto oggetto di fruizione da parte di un’arte che non prevede alcuna distanza critica. I riferimenti espliciti sono a Caravaggio e a Francis Bacon, ma c’è un tappeto di rimandi cinematografici, il cinema di Fassbinder ad esempio o quello di Gus Van Sant, come precisa il regista, che fa della pellicola stessa un corpo artistico pronto a camminare alla scoperta della propria natura e della propria sessualità.

Lovers Film Festival

Postcards from London di Steve McLean

Diversi nel tema e nell’approccio i due film firmati da giovani registe israeliane: My Days of Mercy di Tali Shalom Ezer, presentato nella sezione “Focus Coordinamento Pride”e Montana di Limor Shmila, della rassegna “Cinque pezzi facili” creata dal presidente del Lovers Giovanni Minerba. Produzione e cast angloamericano, Ellen Page e Kate Mara sono le protagoniste, My Days of Mercy è un film politico che si schiera a bassa voce e con rispetto sulla pena di morte. Le due donne si conoscono durante una manifestazione contro la pena capitale, ma a dividerle sono le loro idee: Lucy si batte per salvare il padre accusato dell’omicidio della madre, Mercy sostiene l’esecuzione di un condannato. Si innamorano e attraversano per mano il dolore che conduce alla morte, ma prima ancora a un’accettazione della vita e della sua assurdità, e anche della sua bellezza. Con occhio gentile, la regista accompagna le due in un percorso che piega il corpo e risveglia l’anima, così buio a tratti da invocare la morte, così luminoso in altri da guardare la vita con l’incredulità di chi non le credeva più.

My Days of Mercy di Tali Shalom Ezer

Stessa mano delicata nel dramma, quella di Limor Shmila in Montana, presentato al 41°Toronto International Film Festival. Asciutto e forte, il film ci fa entrare nella vita di Efi (probabile alter-ego della Shmila), tornata nella sua città natale dopo quindici anni di assenza per dissotterrare vecchi segreti familiari e identità nascoste sotto la polvere della borghesia e di una comunità castrante. La morte del nonno, raccontata con garbo in una scena iniziale che la regista colloca abilmente sulla soglia del dolore, riporta Efi a casa, ma la donna protrae la sua permanenza per urgenze sentimentali e obblighi di coscienza. Inizia una relazione con Karen, sposata e con due figli, e lentamente l’accompagna nei meandri oscuri della sua codardìa. Le tocca il corpo mostrandole la sua più intima natura e le accarezza la mente, per rivelarle il pantano in cui si trova intrappolata la sua stessa famiglia, con un marito fedifrago e una figlia che alla sua giovanissima età è già stata derubata del suo corpo e della sua infanzia.

Montana di Limor Shmila

Il cinema israeliano ha raccontato più volte storie di perdite di figli, coppie fatte di corpi soli, scontri familiari, labili tentativi di ricucire il tessuto di una vita in frantumi (Una settimana e un giorno, La sposa promessa, Foxtrot); Limor Shmila ci mette invece di fronte ad un fatto già esistente e a una famiglia già frammentata, priva,  però, degli strumenti per capirlo. Questa volta il figlio può essere salvato, la famiglia può scrollarsi di dosso il suo torpore e richiamare all’ordine una coscienza addormentata. Il ritorno a casa di Efi rappresenta una ricomposizione identitaria e una riconciliazione familiare, avvolta da quel dramma che smuove le acque sporche del passato facendo venire a galla tutto quello che è stato nascosto, dimenticato o, peggio, ignorato. Il Lovers si affaccia su una storia d’amore omossessuale per mostrare la vita che si nasconde tra pieghe delle nostre viltà e che, quando viene fuori, lo fa con prepotenza, aiutandoci a capire la nostra natura sessuale, e non solo.

Il festival, in tutte e tre le pellicole, mostra quindi la sua trasversalità, facendo del tema omosessuale un nucleo da cui si diramano storie e realtà che coinvolgono ogni Lover presente davanti allo schermo, rendendo questo inizio bellissimo.

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