Arriva dalla Spagna il film che porta in scena in maniera del tutto inedita e sorprendente la dura realtà del mercato del lavoro. “La mano invisibile” opera d’esordio del giovane regista David Macian è nelle nostre sale dal 23 novembre.
David Macian non è Ken Loach, ma la precisione con cui tratta il tema del lavoro è quella propria del maestro britannico. Macian non è neppure Lars Von Trier, ma la messa in scena della sua opera inevitabilmente riporta alla mente la suggestiva scenografia di Dogville. In questa breve premessa c’è la sintesi di un’opera che spiazza lo spettatore per la ferocia del racconto, ma che al tempo stesso lo seduce per l’eleganza della rappresentazione. Siamo sul grande palcoscenico della vita, le luci basse ci impediscono di vedere i confini dello spazio entro il quale si muovono i concorrenti di un misterioso reality, a fare da cornice c’è un pubblico che rumoreggia ma neanche degli spettatori a nessuno è concesso di vedere i volti. 10 concorrenti (poi se ne aggiungerà casualmente un’altra) sono chiamati a compiere il lavoro che hanno solitamente svolto nella loro vita su quel palco e davanti a quel pubblico.
C’è un muratore ed un macellaio, un’operaia ed un meccanico, un informatico ed un’operatrice di call center, una sarta ed un magazziniere, un barista ed un’addetta alle pulizie. In brevi flashback, che si alternano allo scorrere delle giornate ”lavorative,” ascoltiamo le loro testimonianze durante i provini: tutti provengono dal precariato, dicono di amare il loro lavoro, ma non possono fare a meno di mostrare amarezza per le esperienze negative vissute. Qualcuno in verità lo fa inconsapevolmente parlando di come il lavoro spesso ti porti a tradire i tuoi valori o le tue potenzialità. Il primo aspetto che emerge con il protrarsi dei giorni è la logorante ripetitività del gesto, una routine che su quel palco spesso viene esasperata dal disfacimento dell’opera compiuta per fare spazio alla nuova opera da compiere. Subito dopo entra in gioco la figura del capo, qui perfettamente a suo agio nella spersonalizzazione del rapporto col dipendente cui viene progressivamente chiesto sempre di più sotto la tacita minaccia di sanzioni. Ma il reality, al di là delle derive che ha assunto negli attuali palinsesti televisivi, mira soprattutto ad interpretare i riflessi sociologici dell’interazione. E nulla nella vita sembra essere più interattivo del mondo del lavoro. E’ così che entrano in gioco i rapporti tra colleghi (o, nel nostro caso, tra concorrenti). La mano invisibile che opera dall’alto manovra i fili dell’emotività di ciascun concorrente e genera pericolosi mostri. La meschinità prende spesso il sopravento sulla dignità (e forse non a caso qualcuno manifesta contro lo show esponendo uno striscione che dice: “Por la dignidad del trabajador”), il sospetto si insinua e mette costantemente in crisi la solidarietà tra i sottoposti. Il ritratto del mondo del lavoro che emerge dall’opera di Macian è impietoso, ma tristemente realistico e tanto più incisivo perchè propostoci attraverso una lucida ed affascinante spettacolarizzazione. Un giornale che commenta il reality ipotizza addirittura che si tratti di una nuova forma d’arte.
Parlando de “La mano invisibile” qualcuno ha scomodato persino il grande Charlie Chaplin definendolo il “Tempi moderni” degli anni 2000, a me personalmente è tornata subito alla mente un’opera firmata recentemente da Michele Placido. “[amazon_textlink asin=’B01M4Q9CVD’ text=’7 minuti’ template=’ProductLink’ store=’fuoridicinema-21′ marketplace=’IT’ link_id=’e7e3c75b-ddd0-11e7-86ff-81760b6cd6d1′]” non mi aveva particolarmente entusiasmato quando l’avevo visto la prima volta alla Festa del Cinema di Roma del 2016, ma poi lentamente si era fatto spazio dentro di me sostenendo a viva voce quanto bisogno abbia oggi il lavoratore di riaffermare la propria dignità. I due film sono ovviamente molto diversi tra loro (nonostante i tanti paragoni un film che davvero somigli a “La mano invisibile” non esiste), ma ci riconducono alla medesima analisi, sottolineando le drammatiche conseguenze dell’iniquo rapporto (di forze) tra datore di lavoro e dipendente e dell’ambiguità che spesso questo genera tra colleghi. Ne “La mano invisibile” ai lavoratori viene chiesto un leggero aumento della produttività, alle lavoratrici di “7 minuti” di ridurre proprio di quei pochi minuti la pausa pranzo: ma cosa si cela dietro quelle richieste apparentemente così poco rilevanti a fronte della conservazione del posto di lavoro? Riunite intorno ad un tavolo le operaie di Placido partono dalla scontata accettazione dell’accordo per arrivare ad un’amara presa di coscienza e ad un duro scontro con chi continua a rimanere soffocata dal bisogno. Tra paure e sospetti la stessa cosa accade anche sul palco de “La mano invisibile”, perchè quando si parla di lavoro nulla è mai soltanto un gioco.
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