La guerra dei cafoni. Romeo e Giulietta vanno al mare in Puglia

Da qualche settimana è sugli schermi di Sky una delle più piacevoli sorprese dello scorso anno per il cinema italiano, “La guerra dei cafoni”, regia a quattro mani di Davide Barletti e Lorenzo Conte (già autori nel 1995 di “[amazon_textlink asin=’B001DOUR8W’ text=’Fine pena mai’ template=’ProductLink’ store=’fuoridicinema-21′ marketplace=’IT’ link_id=’0e288b86-f772-11e7-9611-bbd9b0eaa240′]” con Claudio Santamaria), che riprende il successo editoriale dell’omonimo romanzo di Carlo D’Amicis pubblicato da Minimum Fax.

La guerra dei cafoni

Un brevissimo prologo recitato in greco-bizzantino e risalente a qualche secolo fa ci mostra uno sprezzante signorotto (riecco Claudio Santamaria) che senza nessuna pietà infierisce su un bambino cafone che cerca di sottrargli un po’ della “sua” acqua. La guerra dei cafoni nasce proprio in quel momento, ma la scena si sposta rapidamente alla metà degli anni ’70, a Torrematta, luogo immaginario di una Puglia sempre bella ed assolata. Un po’ per gioco, ma molto più per la fierezza che muove la lotta di classe, ogni estate i figli dei cafoni (pescatori e braccianti) lanciano una sfida senza esclusione di colpi ai figli dei signori.

Scaleno è il capo dei cafoni, scapigliato e mal vestito combatte sempre con lealtà. Francisco Marinho è il capo dei signori, è ben pettinato e sfoggia il completino verdeoro del Brasile, come il suo idolo calcistico dal quale ha mutuato il nome; si sente un soldato obbediente, anzi no, un generale, ma anche in quella veste il suo dovere è esclusivamente l’obbedienza alle regole della guerra. Tonino è un bambino cafone, è un po’ pigro ma il suo cuore è nobile ed i suoi desideri amorosi forse un po’ troppo ambiziosi. Su un fronte e sull’altro ci sono tanti combattenti, tutti dai nomi decisamente folcloristici.

La guerra dei cafoni

Un giorno Francisco Marinho contravviene alla regola che vuole che le donne restino estranee alla faida, ma subito dopo si innamora della purezza e della determinazione di Mela (sorella di Tonino) e per lei decide di lasciare la più sofisticata Sabrina. La crescente attenzione dei maschi verso le due ragazze e le prime schermaglie amorose avvicinano in maniera compromettente i due gruppi, ma a sovvertire in maniera definitiva l’equilibrio tra le parti ci pensa l’arrivo di Cuggino, un oscuro e fascinoso ragazzo chiamato da Scaleno a dare man forte ai cafoni. Cuggino fa il meccanico, gioca bene a flipper (persino meglio di Francisco Marinho, campione mai sfidato da nessun’altro) ed ha una tale facilità a maneggiare il denaro che al bar addirittura si permette il lusso di ordinare un aperitivo. La guerra per lui non ha regole, il nemico tocca abbatterlo a qualsiasi costo, magari anche con la stessa brutalità del signorotto intravisto nel prologo. Tra i protagonisti del racconto ci sono anche due cani, uno in verità di pelouche, ed un santo pagano, Papaquaremma, il protettore dei cafoni. In questo quadro così variegato l’epica si mescola con la favola e con la nostalgia delle nostre adolescenze. Si ride e ci si appassiona, ma ogni tanto ci si ritrova a masticare amaro.

La guerra dei cafoni

Contrariamente al romanzo la presenza degli adulti è quasi del tutto esclusa e, salvo il prologo e l’epilogo, l’unico vera figura adulta che interagisce con i ragazzi è quella del barista Pedro, interpretato dal magnifico Ernesto Mahieux, che con la sua peculiare struttura fisica asseconda perfettamente proprio il lato favolistico del racconto. Nessun intento didascalico anima le intenzioni degli autori ma il pubblico più giovane può trovare tra le righe del racconto importanti chiavi di lettura riguardo a temi fondamentali per i ragazzi di quell’età come il senso di appartenenza e il prezzo da pagare per rimanere fedeli ai propri ideali. Il film si rivolge comunque ad un pubblico di tutte le età e offre spunti di riflessione di più ampio spettro sulle disparità sociali e sulle dinamiche che esse generano. Quello che ci viene presentato come uno spaccato degli anni ’70 ci appare come modello socio-economico ancora rintracciabile ai giorni nostri.

Molto interessante è il lavoro di casting e di formazione che i registi hanno svolto con i giovani interpreti, tutti debuttanti e reclutati in ogni provincia della Puglia. La provenienza così variegata ha dato luogo ad una bella mescolanza di linguaggi che rafforza la volontà degli autori di collocare la narrazione in un luogo immaginario che sia rappresentativo di un’intera regione. Si scopre così che i due fratelli, Mela e Tonino, provengono una da Mola di Bari e l’altro dal basso Salento e parlano con accenti molto differenti tra loro. Successivamente al casting tutti i ragazzi hanno convissuto, in assenza dei familiari, per un lungo periodo in una sorta di campus dove sono stati seguiti anche da un maestro d’armi che li ha educati alle prime basilari tecniche di combattimento. Le location del film, esaltate da una fotografia sempre satura di colori, sono tutte estremamente suggestive. La terra rossa si alterna insistentemente con gli specchi d’acqua raggiungendo il culmine della magia nella cava di bauxite (di Otranto) bagnata dal laghetto verde.

La musica del film segue un sound diverso ma a me piace affidare i titoli di coda di questo articolo a Francesco De Gregori che cantando “A noi cafoni ci hanno sempre chiamati, ma qui ci trattano da signori.. che quando piove si può star dentro ma col bel tempo veniamo fuori” aveva fotografato una delle più emblematiche stratificazioni sociali, anch’essa convertita in uguaglianza dalla tragedia finale.

/// il trailer ///

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