Lunedì 4 marzo, nella versione restaurata dalla Cineteca di Bologna per la rassegna Il Cinema Ritrovato, torna in sala Jules e Jim, il film di François Truffaut che ha cambiato la mia, e non ho paura di dire quella di molti, percezione del cinema inteso anche come riflesso autobiografico universale, seduta analitica che differisce dal cinema di Ingmar Bergman, ad esempio, per una leggerezza apparente e un’accettazione dell’ineluttabile catturato nel suo aspetto più ludico.
Nel corso di una carriera registica durata ventinove anni, dal 1954 al 1983, con ventuno lungometraggi e tre cortometraggi a carico, Truffaut sviscera elementi autobiografici esplicitamente dichiarati, come ne I 400 Colpi (1959), quando il protagonista Antoine per giustificare un’assenza a scuola utilizza la stessa scusa adottata da Francois molti anni prima (“Si tratta della mamma, signore… è morta”) o in tutto il ciclo dedicato ad Antoine Doinel (che Truffaut vede crescere da I 400 colpi, passando per Antoine e Colette, Baci Rubati, Non drammatizziamo… è solo questione di corna e L’amore fugge), fino, appunto a Jules et Jim, opera ispirata al romanzo omonimo di Henri – Pierre Roché, nel quale Truffaut aveva ritrovato elementi e situazioni della sua vita. Ad interessarlo, però, non è il mero valore soggettivo di ciò che accade, la storia, ma la sua struttura universale, l’idea che le sottende e che appartiene in qualche modo a tutti; i suoi lavori costituiscono un corpo unitario, un insieme di rimandi, contrapposizioni, aspetti speculari che lo rendono il più fedele e allo stesso tempo il più eclettico dei cineasti, perché in grado di tratteggiare le linee degli stessi corpi, dalla nascita alla maturazione, evidenziandone limiti e grandezze. Lui, così timido come ha raccontato Suzanne Schiffmann, sua collaboratrice storica (“Tre persone erano già una folla”) ha trasmesso questa timidezza anche ai suoi personaggi, rendendoli fragili in apparenza, ma dotati nella realtà di una forza e una perseveranza che li spinge fino ad azioni estreme.
Soprattutto i personaggi femminili, e qui arriviamo alla Catherine di Jules et Jim, sembrano quelli su cui Truffaut poggia maggiormente lo sguardo, e questo sia per una sua palese attrazione per l’altro sesso (a lui si ispira il personaggio di Bertrand Morane de L’uomo che amava le donne) , che lo ha spinto a lunghe relazioni con molte delle donne che incontrò e diresse (Catherine Deneuve, Jacqueline Bisset, Fanny Ardant, la protagonista di Jules et Jim Jeanne Moreau, solo per citarne alcune), sia per un’idea che coltiva nelle sue pellicole e all’esterno:
“Spesso sono stato accusato di ritrarre uomini deboli e donne decise, che dirigono gli eventi, ma penso che sia proprio quello che avviene nella vita reale.”
Nel 1962, dopo il successo de I 400 colpi, premio alla regia al Festival del Cinema di Cannes e l’insuccesso iniziale del film Tirate sul Pianista, Truffaut volle dedicarsi a un progetto cui pensava da tempo, l’adattamento del romanzo di Henri – Pierre Roché intitolato Jules et Jim. Gli attori scelti, come richiesto dalla Nouvelle Vague, erano tutti semisconosciuti, fatta eccezione per la protagonista femminile Jeanne Moreau, il budget modesto e le location messe a disposizione da amici e conoscenti.
Nella Parigi della Bella Époque due amici, Jules (Oskar Werner) et Jim (Henri Serre), trascorrono i giorni dilettandosi in elucubrazioni intellettuali e ricerche artistiche e condividendo pensieri, viaggi, scritti, donne. Durante uno di questi viaggi, ad Atene, osservando le statue classiche riprodotte nelle diapositive di un amico, vengono entrambi catturati dal sorriso arcaico di una dea rapita da un eroe, una statua recentemente dissotterrata su un’isola, sorriso che ritroveranno a Parigi sul volto di una giovane berlinese, Catherine, detta Kathe. E proprio a questa giovane donna, nel tempo, affideranno entrambi un potere enorme, a intervalli regolari, in un rapporto tra i due coeso e con Kathe frammentato dalla guerra, dal vortice della vita (quel Tourbillon de la vie che Catherine canta in una scena e che sembra quasi rivelare il senso stesso del film) e dagli impulsi della donna, dalla sua irruenza che è, al contempo, la sua forza e la sua debolezza.
Così la descrive Henri – Pierre Roché:
“Quando tutto andava troppo bene, quando ci si abituava troppo, le accadeva di essere scontenta. Allora cambiava tono, s’infilava gli stivali, impugnava una bacchetta e come un domatore frustava tutto a gesti e a parole […]. Passava da un estremo all’altro bruscamente.”
Catherine è uno di quei personaggi di cui sopra in apparenza fragili e nella realtà dotati di una straordinaria forza, un personaggio oscuro di cui non si conoscono i pensieri, a differenza di quelli quasi adamantini di Jules et Jim, abituati a dirsi tutto e a dirlo, conseguentemente, anche allo spettatore. Non a caso il nome di Catherine non appare nel titolo del film, non abbiamo accesso ai suoi pensieri che sono solo frutto delle congetture e, a volte, delle paure, dei due uomini. Dallo spazio sociale ristretto in cui è costretta a muoversi, Catherine cerca di scappare e lo fa nei modi più bizzarri: tuffandosi nella Senna, vestendosi da uomo, maltrattando non solo a parole chi le sta accanto e liberandosi dai lacci di una morale collettiva, per inseguire un ideale di amore e di rapporto del tutto individuale, in bilico fra la purezza di un ideale estetico sublime e la scandalosa depravazione (almeno agli occhi dei più puritani ). È certamente fuori dai confini della morale comune, ma ha in ogni caso una sua morale, un suo codice d’onore inflessibile all’interno del rapporto e all’esterno, una sua idea di giustizia e onestà:
“La calma, disse Kathe, è una maschera. Maschera per maschera, preferisco la violenza.”
Una concezione assoluta dell’amore che, specialmente nel contesto di un rapporto tripartito, non può che disgregarsi. E infatti Truffaut, in una lettera indirizzata a Helen Scott e datata 26 settembre 1960, scrive:
“Il prossimo film, in ogni caso, è Jules e Jim, un inno alla vita e alla morte, una dimostrazione attraverso la gioia e la tristezza dell’impossibilità di qualunque combinazione amorosa al di fuori della coppia.”
E non essendo per Truffaut la coppia un’istituzione sempre ben riuscita, sembra quasi accettabile il tentativo di operare all’interno di diversi modi di vivere, destinati anch’essi, però, al fallimento. Più che l’impossibilità di un amore a tre, il film sembra provare l’impossibilità di un amore totale, quella forma di amore cercata proprio da Catherine. Un sentimento in grado di livellare tutte le differenze, annullare lo spazio che inevitabilmente separa due amanti, per invocare una fusione estrema, una parità rinvenuta solo nella morte, in una caduta attuata insieme. Catherine è una donna che ama ma che sente, al contempo, un desiderio infinito di libertà e, per questo motivo, sogna una fusione in grado di mantenere intatta proprio la libertà di entrambi. La sogna, la cerca, non si arrende, apparendo così sempre sfuggente e inafferrabile agli occhi dei suoi uomini, arrendevole e crudele, una dea dal sorriso beffardo come quella che Jules et Jim avevano visto nel loro viaggio in Grecia, la cui felicità può svanire da un momento all’altro, perché conosce bene il vortice del tempo.
“Il tempo passava. La felicità si racconta male. Si logora, anche: e non ce ne accorgiamo”
E Catherine, forse, tra i tre, è proprio l’unica ad accorgersene.
Questo film così grande e questi temi così difficili da raccontare a parole, sebbene Henri – Pierre Roché ci sia riuscito e François Truffaut da lui attinga con una fedeltà commovente, tornano in sala da lunedì. Per chi ha fatto del cinema la sua vita e come per Ferrand , il protagonista di Effetto Notte , “Il cinema impera!”, per chi ama Truffaut, per chi come lui crede che in fin dei conti le idee siano sempre meno affascinanti delle persone e che desidera tuffarsi nei personaggi come Catherine si tuffa nella Senna, la visione è, diciamolo, obbligatoria.
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