“The square”, “Loveless” ed “Happy end” erano tra le opere più attese dell’ultimo Festival di Cannes, ma alla fine il giudizio dei critici e del pubblico si è diviso su ciascuna di esse come raramente era accaduto in passato.
Avendo avuto la possibilità di vedere i tre film uno dietro l’altro, nel breve volgere di 48 ore, mi è parso di assistere ad una sorta di trilogia dell’umanità in frantumi. In realtà le opere presentate a Cannes 2017 sono per ciascun autore la coerente prosecuzione di un percorso di indagine sociale, politica ed individuale con cui hanno finora sempre caratterizzato i loro atti creativi.
Lo svedese Ruben Ostlund fa centro in maniera piuttosto rapida e porta a casa la Palma d’oro alla sua seconda vera apparizione sulla scena internazionale dopo aver già vinto due anni fa la sezione “A certain regard” con il bellissimo “[amazon_textlink asin=’B012DVCSE4′ text=’Forza Maggiore’ template=’ProductLink’ store=’fuoridicinema-21′ marketplace=’IT’ link_id=’c2b1d25a-ecc7-11e7-ad9e-0bfe54d4c943′]”. Già sulla base di queste due opere, sostanzialmente differenti tra loro, si può facilmente cogliere quale sia il principale oggetto di indagine dell’autore: la meschinità dell’essere umano di fronte ad uno stato di precarietà emotiva. In “Forza maggiore” un padre abbandona la famiglia sulla terrazza di uno chalet di montagna davanti all’avanzare di una valanga e si preoccupa unicamente della salvezza personale e dei suoi beni materiali facendo crollare la fiducia che in lui riponeva la moglie; in “The square” Christian, brillante direttore di un museo di arte contemporanea, che ha fondato il suo successo sull’etica, assume una serie di deplorevoli comportamenti dopo essere stato derubato del cellulare e del portafogli nel tentativo di aiutare una donna apparentemente in pericolo innescando così un pericoloso effetto domino che coinvolgerà l’ambito familiare, professionale e sociale.
Nelle opere del russo Andrej Zvyagintsev il decadimento morale fa riferimento in maniera più specifica alla sfera civile e politica con un chiaro riferimento alla situazione del suo paese. Nel precedente [amazon_textlink asin=’B00XJQTZMQ’ text=’“Leviathan”‘ template=’ProductLink’ store=’fuoridicinema-21′ marketplace=’IT’ link_id=”], anch’esso premiato a Cannes, un cittadino combatte ostinatamente i soprusi del sindaco del suo paese che vuole espropriargli i terreni per incrementare i suoi loschi affari ed ogni volta che si entra negli uffici comunali la camera volutamente indugia sulla fotografia di Putin che campeggia su una parete. In “Loveless” (Premio della Giuria) la vicenda torna a farsi strettamente privata, ma la totale amoralità dei personaggi diventa metafora di uno stato che non sa prendersi cura nemmeno dei suoi figli. Il titolo “Loveless” è emblematico di un paese che non conosce più l’amore e che visivamente Zvyagintsev rappresenta attraverso scheletri e carcasse come quella della grande balena arenatasi sulla spiaggia in “Leviathan” o come i sotterranei di un grande palazzo abbandonato dove il piccolo Alyosha era solito rifugiarsi per sfuggire all’orrore della famiglia in “Loveless”. Forse non è un caso che, sin da “Il ritorno”, vincitore a Venezia nel 2003, nel suo cinema siano sempre i figli a pagare il prezzo più alto per il comportamenti dei genitori, come a sottolineare la totale assenza di speranza e di prospettive future per il paese.
Nell’ultimo film dell’austriaco Michael Haneke si chiama Georges il personaggio interpretato, nel suo passo d’addio, dal grandissimo Jean Louis Trintignant. “Happy end” è un titolo che assume in questo caso una valenza ossimorica, riconducendoci all’epilogo di “[amazon_textlink asin=’B00BHITPUU’ text=’Amour’ template=’ProductLink’ store=’fuoridicinema-21′ marketplace=’IT’ link_id=’65fb0d56-f24b-11e7-b6b9-e11963cc260e’]”, in cui lo stesso Trintignant, nei panni dello stesso Georges, compiva un estremo atto (d’amore) portando a compimento la riflessione sul senso ultimo della vita. “Amour”, pur essendo probabilmente la sua opera più dolente ci aveva fatto conoscere un Haneke insolitamente generoso nel delineare il ritratto dei suoi protagonisti, attribuendo il loro mal di vivere a fattori contingenti come la vecchiaia e la malattia, e non più, come in quasi tutta la sua filmografia, alla natura fallace dell’uomo. Nel riunire i due Georges e nel continuare a chiedersi quale sia il senso della vita, Haneke ci ripropone in “Happy end” una ben assortita galleria di miserie umane, continuando a puntare i suoi riflettori sugli strati borghesi della società. La violenza e la follia, i segreti e le bugie rendono inquietanti ed in alcuni casi addirittura aberranti i personaggi del suo cinema.
Provare a racchiudere “The Square” dentro poche righe di sinossi o pretendere di coglierne tutte le intenzioni significherebbe volerlo ridimensionare proprio in quella che è la sua dimensione di opera anarchica e dal flusso narrativo assolutamente irregolare. Tra le intenzioni dell’autore c’è sicuramente la volontà di disorientare lo spettatore che, nel seguire le diverse tracce che si sviluppano a partire dall’episodio del furto precedentemente citato, si imbatte in una serie di rappresentazioni che riconducono al quotidiano modo di stare al mondo; un modo, troppo spesso, fatto di ipocrisie, egoismo e vuoto interiore. In molti hanno visto in “The square” uno spietato ritratto del mondo dell’arte contemporanea, ma la sensazione è che l’arte non sia l’oggetto dell’indagine quanto piuttosto lo strumento che Ostlund utilizza per analizzare la società. Tutto può diventare “arte” seguendo i dettami di un gallerista o persino di un regista e così anche “The square” si fa, nelle intenzioni dell’autore o forse solo nella percezione dello spettatore, opera d’arte e performance. Nel film “The square” è un’istallazione, un quadrato delineato da un perimetro luminoso, “un santuario di fiducia ed altruismo al cui interno abbiamo tutti gli stessi diritti e doveri”. Nel corso del racconto vedremo ancora Christian mostrare alle figlie un’istallazione posta all’interno del museo in cui si chiede di scegliere tra le opzioni “mi fido” e “non mi fido” prima di proseguire nel percorso e scoprire che siamo tutti permeati dalla convinzione che fiducia ed altruismo sono ormai solo concetti utopici. Christian diventa così l’alter ego del padre di famiglia che provava a salvare solo se stesso davanti alla valanga, ma questa volta Ostlund lo colloca in una rete di interazioni sociali più ampia rendendolo persino più vulnerabile.
Se Ostlund abbonda e sovrappone, Zvyagintsev minimizza e sottrae. Il suo cinema è fatto di asettiche rappresentazioni di eventi tragici che non creano più alcun clamore, tanta è l’assuefazione e l’indifferenza di quella società. In “Loveless” Zvyagintsev si spinge all’estremo provocando un totale disorientamento nello spettatore; anche chi conosce ed apprezza da sempre il suo cinema sembra non riuscire a farsene una ragione che la mancanza d’amore vada a toccare proprio ciò, che da questo punto di vista, dovrebbe essere intoccabile, un figlio piccolo. Zhenya e Boris si stanno separando, il loro rapporto è fatto di stanchi e reiterati litigi, ognuno di loro ha già una seconda vita con un nuovo partner (Boris sta anche per diventare nuovamente padre): in questo scenario il figlio Alyosha è solo un peso di cui nessuno dei due è disposto a farsi carico. L’ultimo litigio è quello più drammatico (per noi), il regista ce ne rende partecipi mentre lentamente scorge Alyosha che, nascosto dietro una porta, li ascolta e piange. E’ l’ultima apparizione del bambino di cui subito dopo avremo la notizia della sparizione. Le ricerche sembrano essere solo parte di un copione da recitare, ulteriore occasione per vomitarsi addosso disgusto e livore. Viaggiando in macchina insieme a loro alla ricerca di indizi o scrutandoli nella penombra delle camere da letto mentre fanno sesso (non certo amore) con i loro partner comprendiamo immediatamente che il passato da cui provengono (Zhenya e la madre si odiano) e il futuro che stanno costruendo sono identici al presente da cui stanno scappando: nessuno ha insegnato loro che si può guardare anche oltre se stessi, né loro hanno alcuna intenzione di farlo con i figli. Una sola scena restituirà allo spettatore il pathos che questa immane tragedia avrebbe dovuto generare sin dal primo momento. La messa in scena di Zvyagintsev è sontuosa con lunghi piani sequenza ed inquadrature lontane che ci immergono nel gelido paesaggio, tenendoci però a dovuta distanza dai gelidi cuori dei protagonisti.
Per il suo “Happy end” Haneke sceglie la via del racconto corale rendendone protagonista un intero nucleo familiare, ma, tra tutti, sceglie di mettere in primo piano la dodicenne Eve, una sorta di angelo della morte che, con assoluta lucidità, osserva ogni devianza degli adulti fino a farsene giudice ultimo o addirittura salvatore, proprio come il Georges di “Amour”. Il decadimento dell’intera classe imprenditoriale europea si incarna in una famiglia dell’alta borghesia francese che dopo aver dispensato benessere ed occupazione ora vive di piccoli espedienti e raggiri. Haneke dipinge un ritratto a tutto tondo della nostra società senza omettere alcun aspetto dell’attuale crisi socio-economica, dalla precarietà e mancanza di sicurezza nel mercato del lavoro alle condizioni dei migranti e rifugiati nel ghetto di Calais. Forse un po’ tanta roba se è vero che il suo sguardo vuole rimanere comunque focalizzato sul vissuto privato dei protagonisti. Eve, dopo che la madre è rimasta gravemente intossicata da un’overdose di antidepressivi, è tornata a vivere con il padre Thomas (Mathieu Kassovitz), uno stimato medico che ha una nuova moglie, un figlio appena nato ed un’amante con la quale intrattiene una scabrosa relazione in chat. Nello stesso palazzo nobiliare abitano il nonno Georges (Trintignant appunto), che ha fondato e reso prospera l’impresa familiare e che ora le pensa tutte per andare incontro alla morte, l’ambigua zia Anna (Isabelle Huppert) ed il dissoluto cugino Pierre, che, per diversi motivi, sembrano incapaci di garantire la sopravvivenza all’impresa di famiglia, ed una coppia di domestici maghrebini. Haneke si mette in gioco rinnovando ampiamente il suo linguaggio e pur conservando un senso di atrocità al racconto sceglie di declinare lo stesso con i toni della farsa. Contemporaneamente introduce elementi della moderna comunicazione come la videocamera del cellulare cui affida la lunga e determinante sequenza iniziale o lo schermo del pc attraverso cui ci lascia seguire in maniera molto circostanziata le fantasie erotiche tra Thomas e la sua amante.
Come spesso accade la resa dei conti avviene a tavola dove l’ipocrita convivialità borghese viene brutalmente interrotta dalla performance dell’uomo scimmia in “The square” e dall’arrivo del ripudiato Pierre e di un gruppo di rifugiati politici in “Happy end” in quelle che sono probabilmente le scene più belle e significative dei rispettivi film.