Favolacce, tre punti di vista

Abbiamo visto Favolacce, dall’11 maggio disponile on demand su Sky Primafila, TIMVISION, CHILI, Google Play, Rakuten TV, Infinity e CG Entertainment. Marta, Francesco e Marzia ne parlano così.

 

Caro diario,

Premetto che sto invecchiando e la bruttezza e le brutture di cui è pieno il mondo, non le reggo e non me le vado a cercare nella finzione; da giovane mi agitavo e infervoravo, forse perchè ne ero meno avvezza, ma adesso mi avvelenano e basta, quindi cerco di evitare. Arriverò presto a guardare solo Don Matteo, ho un futuro segnato….
Ho amato Lars von Trier ma oggi lo ritengo il diavolo, Lanthimos è il suo braccio destro armato… Li ho visti tutti ma ogni volta mi dico: no, basta questo è l’ultimo!
Peró se uno è bravo… E bravi sono anche i nostri giovani fratelli D’Innocenzo.

Il loro secondo lungometraggio, Favolacce, doveva uscire al cinema, ma alla fine è uscito nello streaming on demand a pagamento su varie piattaforme.
Se riuscite a guardare la bruttezza in faccia, affittatelo, guardatelo. Ci troverete un Elio Germano brutto come solo una grande recitazione e una sapiente fotografia possono rendere quell’uomo che ha impersonificato al cinema la bellezza straziata di Giacomo Leopardi.
Ci troverete la bruttura di una quotidianità assurda, vissuta da un’umanità contemporanea scorticata e destrutturata, una maschilità scheletrica e avvizzita, una femminilità ombra di se stessa, oltre che del mondo. Senza baci e abbracci. Senza animali da compagnia… Adulti che i bambini guardano, subiscono, che sono solo blandamente attratti dall’imitare.
I protagonisti sono bambini delle medie, in quell’età in cui meno sanno cosa vogliono e più hanno bisogno di presenza statuaria dei genitori, specie del padre, e invece si ritrovano a essere alter ego di figurine in truciolato.

Tutti, o quasi, residenti in belle casine con giardino, nel quartiere romano di Spinaceto, una periferia da cui tutti in letteratura vorrebbero fuggire, senza lustro alcuno se non per quella felice e fugace apparizione in Caro diario (“Spinaceto… Pensavo peggio! Non è per niente male!”). Tutti che si visitano l’un l’altro, dentro le loro case. Non c’è nemmeno troppa tecnologia indoor cui dare la colpa, non c’è la playstation, non c’è proprio un cazzo di niente… un niente da fotografare col telefonino, senza che questo sia un Iphone. Nessuno smaccato riferimento alla contemporaneità, per questo forse è una “favola”, anzi “favolaccia”, con alcuni retaggi proprio fuori da nostro tempo, come il rasare i capelli all’arrivo dei pidocchi o portare i bambini a prendere il morbillo.

Senza mai intravedere parrocchie, spazi pubblici per il gioco, nemmeno negozi. Solo una scuola, che sembra immersa nel deserto…. che forse essa stessa ne è parte, del deserto.

Concludo. È curioso vedere oggi questo film ambientato in tante case-mondo, pensato e girato in epoca pre-covid 19. Oggi che siamo appena stati costretti a impostare le nostre vite nella clausura della casa-mondo. Senza baci e abbracci. Davvero curiosa coincidenza, ma che ci sia da monito. Per tutti. Per il futuro.

La città non è a corredo delle nostre vite, anzi è la città che le sostanzia, dandoci spazio fuori dall’intimo, organizzando e strutturando luoghi che sono scelte di movimento. Stare fermi fa male all’Uomo, non gli appartiene. Anche qualora oggi si scelga di nuovo la campagna, questa è un contraltare alla città, che ha bisogno della città per affermare la propria alteritá.
Che la sola natura non basta ce lo aveva insegnato “Into the wild”, no? Oggi Favolacce ci insegna che è la casa che non basta. Neanche col giardino.

Marta

Caro diario,

Favolacce è un film di tende, vetri e finestre. E di campi lunghi che dicono tanto ma mai tutto. A volte i fratelli D’Innocenzo ci fanno entrare nella vita della famiglia Placido proprio dalla finestra. Accade anche quando, quasi in apertura di film, ce li mostrano seduti sul divano mentre un tg locale diffonde la notizia di un terribile fatto di cronaca. Una prospettiva che ricorda l’approccio di Gianfranco Rosi che in una delle scene più belle di Sacro Gra ci introduce in quella minuscola stanza/appartamento dove vive il nobile piemontese e sua figlia. È come se, insieme ai registi ed ai protagonisti, ci piacesse vedere senza essere visti. La prima scoperta in tal senso la facciamo quasi subito mentre ascoltiamo la voce del narratore e, tra le immagini che anticipano momenti decisivi del racconto, dietro una tenda scorgiamo una delle creature più fragili e pure di questo film, Alessia. La persiana di una finestra della scuola si fa invece filtro di una visione che ci conduce ad un altro elemento chiave del film, l’acqua.

E sì, perché Favolacce è anche un film fatto di acqua, elemento di libertà e purezza che, anche quando stagna, riesce a rimandare, colpita dai raggi del sole, splendide tonalità del verde che fanno pendant con il colore dell’inchiostro con cui è stato scritto il diario ritrovato dal narratore in un cassonetto. La persiana abbassata rappresenta i titoli di coda di un anno scolastico, al di là della finestra ci sono le vacanze, l’allegria, la spensieratezza che esplodono in giochi d’acqua pieni di risate e vivacità. Ma purtroppo Favolacce è anche un film fatto di sorrisi negati e di desideri di normalità soffocati. Di sorrisi dopo quel momento ne vedremo davvero pochi. Alessia, la più piccola, prova a farsene portatrice ma la sua bocca è come una linea dritta che anche quando sorride parla di tristezza.

Favolacce è un film di piccoli dettagli attraverso cui i due autori ci raccontano mondi interiori che non basterebbero mille parole a raccontarli meglio. Vilma, la ragazza che sta per diventare madre, è certamente uno dei personaggi più belli e complessi del racconto. Lei in scena ci sta molto meno degli altri ma a noi sembra avere capito già tutto di lei dalle prime inquadrature quando bastano tre veloci istantanee per portarci nella sua stentata esistenza: lo smalto sfatto ed una ciabatta fiorata al piede (mi verrebbe da dire uno zatterone perché ha il chiaro sapore delle estati degli anni ’70), una lividura al braccio, una sigaretta tenuta tra le dita vanamente ingentilite da un sottile anellino dorato.

Favolacce è mille altre cose, oltre quelle che ho provato a fermare con le mie parole, ma parlare di questo film a chi ancora non lo ha visto mi sembra un atto molto ingeneroso perché Favolacce è un mondo da scoprire solo vivendolo.

Francesco

Favolacce

 

Caro Diario,

Ammetto che vedere film in questo periodo di isolamento non è stato per niente come me lo ricordavo, voglio dire semplice. Riuscivo (riesco, dato che a Londra siamo ancora isolati, più o meno) solo a rivedere cose già viste e riviste e comunque in maniera discontinua, nuotando in una comfort zone estremamente piacevole.
Poi è arrivato Favolacce, film dei fratelli D’Innocenzo, premiato due mesi fa a Berlino per la migliore sceneggiatura. Un film che annuncia speranza in vista del ritorno in sala, l’occasione giusta per riappropriarsi di quell’attenzione adeguata che serve per vedere le cose per la prima volta.
Dai classici in bianco e nero di una volta, mi sono ritrovata nella periferia romana (di ora?) tra il dentro e il fuori, in luoghi asfittici e case rabbiose in cui vive una piccola-media borghesia decaduta. In queste case riecheggiano parole violente scritte con penna verde in un diario: sono le “favolacce” di una bambina ma vengono lette dall’adulto Max Tortora. Ce lo insegnano da piccoli che le cose che finiscono in -accio sono brutte e cattive, e in questo film si parla di mostri, non ci sono lupi ma genitoracci, cosacce etc etc.

È un film sulla bruttezza dell’animo umano e viene tutto facile. È facile riconoscerla, è facile arrabbiarsi, è facile empatizzare. Ci sono due squadre (ma questo non vuol dire che facciano gioco di squadra), quella aggressiva degli adulti che attaccano, comandano, odiano, e quella passiva dei bambini silenziosi, che osservano i comportamenti dei grandi come osservassero quello delle formiche. Incassano in uno stato di calma e assenza di vita, parlando con gli occhi spenti.
I bambini stanno bene solo tra bambini, come nel film The Florida Project, tradotto in italiano Un sogno chiamato Florida, di Sean Baker (2017). Ma basta mettere a confronto anche solo i due trailer per vedere come ai colori disneyani, agli arcobaleni e allo slancio vitale dei bambini del film di Baker, in Favolacce si sostituiscano una fotografia, delle atmosfere e degli sguardi ben diversi. Se in The Florida Project si viveva all’ombra di Topolino e Pluto, qui di Topolino e Pluto non c’è nemmeno l’ombra, e neanche si vive molto. Se in The Florida Project, quel famoso “sogno” alla fine si raggiunge con una corsa liberatoria, il mondo delle Favolacce è senza speranza dal momento in cui si nasce e a soli 12 anni ci si augura che tutto possa finire (“così finisce tutto”, dice ad un certo punto Dennis Placido).

 

Favolacce vs The Florida Project

Favolacce vs The Florida Project

 

Non mancano gli innamoramenti verso scene molto belle e soprattutto verso due personaggi. Ho amato Geremia Guerrini (Justin Korovkin), un bambino già appassito e senza una madre, che nel film dice appena due frasi eppure sembra non smetta mai di parlare, con un linguaggio non verbale che lascia il segno. E ho amato il personaggio di Vilma (Ileana D’Ambra) giovane donna che racchiude in sé contraddizioni e una nuova vita. Vilma è a metà tra l’essere donna e bambina, tra la madre e la figlia, tra ciò che è che sarà. È l’anello di congiunzione tra le due squadre, i due mondi, e ci rivela che superare la linea del campo è forse solo questione di tempo, inevitabile. Un po’ felliniana nelle forme, si colloca nel mio immaginario come una sorta di Saraghina bionda. Tante cose sono solo immaginate, non svelate, seppur reali. L’audio a volte è bisbigliato, le parole mangiucchiate, mi piace pensare che sia voluto, come se certe cose sarebbe meglio non saperle, o forse per capirle dobbiamo fare uno sforzo in più. Elio Germano fa papà Placido, ed è un mostro. Bello tornare al cinema con film così.

Marzia

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