Alla 72ma edizione del Festival di Cannes, Almodovar porta ‘Dolor y Gloria’, un’intensa dichiarazione d’amore per l’arte e il design, con rimandi a Cezanne e dettagli firmati Fornasetti, Magistretti, Giò Ponti… Una dichiarazione d’amore per i libri (ah, quanti libri sul design!), per il teatro e soprattutto per il cinema, quello che “profuma di pipì e gelsomino”, perché ci accompagna fin dall’infanzia. E poi una grande sottolineatura, in rosso – il colore preferito da sempre da Almodovar – sulla vera natura del grande motore della vita e dell’arte: la Madre, icona più che persona in carne ed ossa. Perché, in fondo, la realtà è solo la nostra rappresentazione.
Salvador Mallo (Antonio Banderas) è un regista sessantenne in crisi creativa, dilaniato dal suo mal di schiena e da una innumerevole serie di dolori -“quelli fisici e illustrabili” dalle radiografie e dalle infografiche che ci incollano allo schermo durante le prime scene -, ma anche dal tedio, dai traumi, dalla malinconia e dalla solitudine affettiva. Salvador vive infatti solo nella sua casa stupenda, ha un’unica amica, Mercedes (Nora Navas), la sua storica assistente personale che risponde a ogni sua chiamata, lo accompagna dai vari medici e un po’ lo completa come il rosso completa il verde nella teoria dei colori, e una governante, Beata (Susi Sánchez), che gli lascia la cena pronta, servita coperta da un piatto cupo, nella sua superba cucina rossa. La sua più vera compagnia sono i suoi quadri, enormi, colorati, belli e pregiati da interessare ai musei ma che Salvador non darebbe a nessun museo (neanche al Guggenheim!) per nessuna ragione.
Se vuoi sapere chi è la persona che hai di fronte, è a casa sua che devi andare e devi guardare cos’è che lei/lui si mette di fronte: cosa ha appeso alle pareti. Almodovar ha sempre avuto un’attenzione particolare e ha sempre fatto scelte molto significanti su stile e arredo delle case dei suoi protagonisti; anche in questo film non poteva smentirsi: l’atmosfera dell’abitare coincide con l’essenza o lo stato d’animo di chi la abita, nessuno lo può negare. E un aspetto fondamentale delle nostre case, oltre all’arredamento, sono le pareti e come le rendiamo attive nella nostra quotidianità: pareti bianche o colorate? Sguarnite o piene di quadri? Fotografie, poster o quadri? Quali quadri?
Se Salvador ha dei quadri originali e variegati, a casa di Alberto Crespo (Asier Etxeandìa), l’attore principale di Sabor, pellicola girata da Salvador ben 32 anni prima e appena restaurata dalla cineteca madrilena, ci sono fondamentalmente poster – molti di film e, ovviamente, quello di Sabor – che, nella loro omogeneità, destano la sensazione di blocco emotivo, di appartenere a un uomo mal cresciuto; Alberto vive in una casa circondata da un bosco di pini e questa è una sorta di citazione dal mondo delle fiabe – quelle dove si deve attraversare il bosco per addivenire a qualcosa – per cui Alberto, eroinomane irrisolto e solo (anche lui!), lo possiamo intendere come ancora nel mezzo di quel bosco. A primeggiare tra i suoi poster, una enorme Pera (una pera a casa di un eroinomane, significante direi!), poster di Enzo Mari per Danese del 1963. Da contraltare, nella cucina di Salvador, un bel grappolo d’uva dell’artista surrealista Maruja Mallo (1902-1995).
A decorare le superfici imbozzate della casa d’infanzia di Salvador, una “catacomba” dove all’età di 9 anni si era trasferito a vivere insieme al padre e alla madre Jacinta (Penelope Cruz), sono invece appesi e accostati vasi di fiori e piante e poi, sopra i fuochi della cucina, recuperate e originali, delle piastrelle di azulejos. Qui è la vita stessa alle pareti, quella di fiori e piante veri e non rappresentati, e poi colore-storia-recupero: l’artigianato che si fa arte popolare (azulejos). In questo umile e semplice, ma bellissimo decoro, il senso estetico di Jacinta, che riesce a riportare senso di decoro, più che decorazione, nella modestia della loro abitazione. Jacinta è giovane e bellissima, una madre, astuta e amorevole, che nella vita del figlio vorrebbe essere presente più che rappresentata, mettendo in discussione quella che lo stesso Almodovar definisce l’autofiction, l’autorappresentazione, ovvero la manipolazione che fa il cinema di storie e particolari autobiografici.
Perché in effetti Dolor y gloria è un film di natura autobiografica, che chiude una trilogia iniziata 32 anni fa (proprio quanti anni ha Sabor) con La legge del desiderio (1987) e La mala Educación (2004). Autobiografica è la professione del protagonista, cineasta superbamente interpretato da Antonio Banderas, che riesce quasi a replicare il maestro spagnolo, ma anche ad acquisire un certo fare “perso” e molto contemporaneo alla Bill Murray, autobiografici sono gli acciacchi e la preferenza sessuale e, infine, la sua passione per l’arte.
L’unica cosa che nei film autobiografici di Almodovar mancava era la madre. Ma la madre non ama l’autofiction, l’abbiamo già detto. Poi una madre non è mai una madre. Una madre è sempre un riflesso, un’icona irraggiungibile, un simbolo. La madre di Salvador da giovane ha il viso mediterraneo di Penelope Cruz, ma poi, da anziana diventa Julieta Serrano, donna di altro incarnato, altri occhi chiari. Perché, se tutti i piccoli Salvador somigliano un po’ a Banderas, le due madri sono così all’opposto? Perché Penelope e Julieta non sono e non possono essere la madre, nemmeno del personaggio Salvador: la madre sfugge ogni finta realtà, è e non è, mentre tutto può sui suoi figli.
Dolor y Gloria è un film impeccabile per ogni dettaglio, che piace a chi piace l’Almodovar nelle sue performance migliori – quello di Tutto su mia madre, per intenderci– è un film che nell’attingere alla propria vita si riempe di umanità, quell’ umanità che da personale si fa universale e consente a ciascuno di noi di empatizzare, se non riconoscersi, nelle storie raccontate e nei protagonisti. Perché siamo un po’ tutti quel Federico (Leonardo Sbaraglia), ex amante di Salvador, che si riconosce a teatro nel Marcelo di cui racconta Alberto, tornato alle scene con un monologo tratto da un racconto autobiografico dello stesso Salvador (e forse di Pedro? Poco importa…); a Federico e a noi il miracolo di uscire dal confini del nostro corpo per incontrare l’altro nella finzione scenica, mentre ad Alberto, l’attore, il teatro attua il suo più grande miracolo: quello di trasfigurare l’uomo e e trasformare la natura infantile e trasandata di un drogato imbelle, in presenza scenica compiuta ed efficace.
Le trasformazioni non finiscono mai nel mondo delle rappresentazioni ed ecco che, alla fine, Salvador si sblocca, attingendo proprio dal proprio reale, ritornando alla cinepresa ed ecco come Almodovar ci regala ancora una perla, forse matura ma per niente stanca, del suo autorialissimo e autorevolissimo cinema.
Non perdetelo!
E un suggerimento: attenzione ai dettagli, perché, parafrasando una vecchia réclame, se non cogli i dettagli “godi solo a metà”
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