Nel panorama del cinema italiano contemporaneo esiste un regista che da qualche anno riesce a raccontare storie che, oltre a essere storie di uomini, sono storie che raccontano il Paese in cui avvengono. Un pregio non da poco. Si chiama Daniele Vicari, questo autore, e il suo nome lo vediamo nei manifesti di tutte le sale proprio in questo mese, con l’importantissimo film “Diaz”, ricostruzione della drammatica notte quando, durante il G8 di Genova del 2001, ci fu la tristemente famosa irruzione alla scuola Diaz da parte della Polizia. Prima di quest’opera, Vicari, che nasce documentarista, ha realizzato altri film. Ne riscopriamo due, di cui il secondo è proprio un documentario.

Una scena tratta da “Velocità Massima”
Partiamo però dal 2002, anno dell’esordio di Vicari con “Velocità massima”. Questo film di ambientazione romana potrebbe essere sintetizzato con la locuzione – proverbio ‘donne e motori, gioie e dolori’. Infatti è la storia dell’amicizia che nasce tra Claudio (Cristiano Morroni), giovane mago dei pistoni assunto come meccanico nella sua officina da Stefano (interpretato dall’allora quasi esordiente Valerio Mastandrea). Ben presto Stefano introduce il giovane impiegato nel mondo delle corse clandestine della zona Obelisco di Roma, controllata dal boss Fischio (Ivano De Matteo). Tutto, insomma, lascia presagire il tradizionale sviluppo di un’inossidabile amicizia virile fatta di complicità e passioni condivise, ma ecco che ci si mette di mezzo l’amore. Infatti Claudio inizia a dedicare molto meno tempo a Stefano e all’officina, perchè conosce Giovanna (Alessia Barela). Ma Stefano, in difficoltà finanziarie, ha bisogno dell’amico, e ci sarebbe una corsa clandestina da preparare, per tirar su un bel gruzzolo e risollevarsi… Quello che colpisce nell’opera prima di Vicari è la capacità di osservare e raccontare il mondo delle corse clandestine di auto a Roma ponendo l’accento non tanto sulle potenzialità spettacolari delle riprese, quanto sul rapporto tra i personaggi. Niente inseguimenti vibranti che durano mezz’ora, niente stuntmen a rischiare la vita, insomma. “Velocità massima” tocca corde diverse.

Una scena tratta da “Il mio paese”
Ancora le quattro ruote sono nel 2006 il mezzo con cui Vicari compie il viaggio ne “Il mio paese”, documentario in cui il regista ci accompagna attraverso l’Italia industriale da Termini Imerese a Porto Marghera. Un viaggio – ed è questo l’aspetto interessante – che compie il tragitto inverso a quello di un altro documentario, del 1960, “L’italia non è un paese povero”, di Joris Ivens. Un’opera, quella, che fu censurata dalla Rai dell’epoca per le immagini delle condizioni di lavoro nelle fabbriche che proponeva. Vicari le ha riesumate quarantacinque anni dopo, alternandole nel montaggio a quelle a colori del suo lavoro. Per capire il baratro della crisi economica e industriale iniziata nel 2009 (solo qualche anno dopo rispetto a questo film), e ancora drammaticamente in atto, è utile oggi riscoprirlo.
Articolo tratto da “Urlo – Mensile di resistenza giovanile” – Aprile 2012